«Il più grande furto della storia». Così le Nazioni Unite hanno definito il gender pay gap, la disuguaglianza di stipendio tra uomini e donne. Che nel mondo guadagnano il 23% in meno (dati Onu) e in Europa il 16% (dati Eurostat). Con l’entrata in vigore il 4 aprile della legge che obbliga le aziende private britanniche con più di 250 dipendenti a rivelare differenze di genere nei compensi, un gruppo di deputate inglesi ha lanciato la campagna social #PayMeToo. L’iniziativa, nata sulla scia del movimento antimolestie #MeToo, denuncia il fatto che il 78% delle società in Gran Bretagna paga i maschi più delle femmine. E da noi qual è la situazione? Il divario parte dal primo contratto. «Nel settore privato già al momento dell’assunzione ci possono essere disparità. Da notare, però, che il divario è ridotto fra laureati e laureate che ottengono un posto» osserva Simonetta Cavasin, amministratore delegato di OD&M Consulting di Gi Group, specializzata in temi retributivi.
«La forbice si apre intorno ai 35 anni, momento in cui molte donne decidono di avere un figlio: secondo le nostre rilevazioni, il gap sale e supera il 13%, pari a quasi 4.000 euro in meno l’anno per le impiegate e 14.000 euro per le dirigenti». E continua nel corso della carriera. Tra i manager solo 1 su 3 è donna e riceve uno stipendio del 33% inferiore rispetto agli uomini, rileva Eurostat. «Quando si è una minoranza, è più difficile far valere le proprie condizioni e si è penalizzate nella contrattazione» dice l’esperta. Il problema non riguarda solo chi fa carriera. «Le donne che lavorano in fabbrica guadagnano 2.000 euro annui in meno dei colleghi uomini: anche perché questi ultimi, per esempio, avendo meno carichi familiari sono disposti a fare più straordinari» spiega Cavasin. Anche nel tanto caldeggiato settore tecnico-scientifico, a sorpresa, il divario raggiunge circa il 17% secondo un’indagine del portale Honeyspot. Tradotto: 36.000 euro è lo stipendio medio dei lavoratori maschi contro i 29.000 delle donne «È un ambito ancora prettamente maschile, in cui c’è un certo pregiudizio sulla presenza e valore femminile, ma le ragazze si stanno facendo strada».
La maternità e l’estinzione dei diritti: l’opinione di Michela Murgia
Non è una novità che se decidi di fare figli il sistema capitalistico ti consideri un problema. Manchi dal lavoro, diminuisci la produttività e sempre meno persone capiscono perché la società debba farsi carico dei costi di una tua scelta personale. In nessun Paese però questa logica egoista ha conseguenze pesanti come in Giappone, dove il tasso di natalità è il più basso al mondo, si muore di superlavoro e dove – anche se è illegale – alle donne il datore di lavoro può imporre persino l’anno in cui restare incinte. Sembra un eccesso orientale, ma non è molto diverso dalle dimissioni in bianco pretese dalle donne italiane, fino alla legge che 3 anni fa ha cambiato le cose, quando in caso di gravidanza al principale bastava aggiungere la data per farti sembrare licenziata per tua scelta. In un mondo di 7 miliardi di abitanti non rischiamo certo l’estinzione della specie, ma quella dei diritti è sempre più probabile.