Che la busta paga di un uomo sia più corposa di quella di una donna non è una novità. Ma cosa succede ad avvocate, biologhe e colleghe a partita Iva (circa un terzo del 1.400.000 liberi professionisti italiani)? Anche loro fanno i conti – in perdita – con il gender pay gap e una carriera che arranca contro impari opportunità?
Brave sui banchi, penalizzate alla scrivania
Una risposta, sintetica ma inequivocabile, la dà un dato di Adepp (Associazione degli enti previdenziali privati): le libere professioniste guadagnano in media il 40% in meno degli uomini. E la maggiore o minore presenza di donne nella categoria non sposta tanto gli equilibri, anzi i disequilibri. «La nostra professione si sta sempre più femminilizzando » dice Giuseppe Santoro, presidente di Inarcassa (Cassa nazionale di previdenza e assistenza per gli ingegneri e architetti liberi professionisti). «L’incidenza delle donne ingegnere nel 1996 era del 4%, nel 2016 del 14%. E il loro reddito medio è il 55% di quello degli uomini. La differenza non è giustificata dal merito, dalla carriera universitaria e dal voto di laurea».
Le performance accademiche per le donne sembrano, anzi, fare da volano un po’ dovunque nel mondo a partita Iva. «In ambito sanitario è in corso una femminilizzazione ad ampie falcate, perché le ragazze, mediamente più brillanti dei coetanei, superano meglio i test di ammissione alle facoltà a numero chiuso. Ora, per esempio, su 30.000 veterinari le donne sono il 48%» spiega Gianni Mancuso, presidente Enpav, l’ente di previdenza dei veterinari. «Ma molte restano intrappolate nei gap del mercato del lavoro: da quello di genere a quello geografico, che penalizza chi sta al Sud».
Divise tra famiglia e lavoro
C’è un punto di svolta in cui per tante professioniste opportunità e introiti imboccano una parabola discendente. Ne parla Tiziana Stallone, presidente dell’Enpab, la cassa previdenziale dei biologi in cui su 10 iscritti 7 sono donne: «Registriamo un gender pay gap del 33%. Questo dato medio non mostra però la cesura cruciale: tra i 30enni la differenza di reddito è del 10%, dopo i 40 anni lievita. È il momento in cui ci si dedica alla cura della famiglia: prima diventando genitori, poi occupandosi dei propri genitori». Tutto da copione, un copione già visto, sentito e sempre amaro. Ma come si spiega quel 10% a favore degli uomini, anche in una fase della vita in cui tempo ed energie delle donne non sono ancora dirottati dal lavoro verso la gestione (e sostituzione in emergenza) di babysitter e badanti?
«Il problema non è la diversità di parcelle a parità di prestazioni » sostiene Stallone. «Ma le donne tendono a lanciarsi in business meno paganti, a fare imprenditoria in modo calmierato pensando già a quando saranno genitori». Spintonate da pregiudizi culturali e carichi familiari sbilanciati, le professioniste si ritrovano così nelle posizioni marginali dello scacchiere lavorativo. «Anche tra i commercialisti le donne sono nella fascia inferiore di reddito ed è bassa la loro concentrazione negli studi in centro città, di solito i più prestigiosi, che macinano i fatturati top» dice Marcella Caradonna, presidente dell’Ordine dei dottori commercialisti ed esperti contabili di Milano. Che aggiunge: «Per una libera professionista staccarsi per un certo periodo dall’ufficio, per una malattia o per la maternità, significa perdere clienti e questo può avere effetti dirompenti sul suo futuro lavorativo».
Disposte (fin troppo) al sacrificio
Persino le avvocate, che di mestiere difendono i diritti altrui, per far valere i propri devono battagliare. Barbara de Muro, presidente di Asla Women (Associazione studi legali associati) snocciola dati non confortanti: «Cresce il numero di donne, ma guadagnano il 43% in meno dei colleghi e negli studi legali associati solo il 13% arriva al ruolo di managing partner». Poi mette in guardia da una trappola psicologica. «Capita che gli stessi avvocati debbano occuparsi di attività non giuridiche come la gestione del sito: mansioni di “cura dello studio” che sottraggono tempo al networking, cioè alla ricerca di nuovi clienti. Bisogna assolvere simili richieste senza sacrificare la propria crescita professionale: rivolgo il consiglio in particolare alle giovani colleghe, che faticano più degli uomini a farsi valere».
Pronte a reagire
Le casse previdenziali si stanno impegnando a combattere il gender pay gap (come Enpab che prevede borse lavoro con corsie preferenziali per le neomamme e Inarcassa che eroga l’indennità di paternità). E quali altri correttivi ci sono? «Non esiste la soluzione, ma tanti piccoli supporti» dice Marcella Caradonna. «Per esempio, vanno promosse le banche del tempo: reti di solidarietà per aiutarsi tra colleghe e colleghi in difficoltà sia in casi eccezionali sia per la “normale emergenza” del crescere i figli». Utili anche le Best practice raccolte da Asla: linee guida attente alla tutela della vita familiare e alla valorizzazione delle diversità. «Sono buoni esempi ispirati da alcuni studi legali ma applicabili anche ad altre professioni» dice de Muro. «Perché il gender pay gap ci accomuna tutte. E tutte, salariate o partite Iva che siamo, dobbiamo fare del suo superamento una comune priorità».
2 manuali di sopravvivenza
Si può su un tema serio come la partita Iva scrivere un libro utile e anche ironico? Fulvio Romanin in L’IVA funesta (Utet) ci è riuscito tanto da sfornare consigli su burocrazia e follia su cui ruota la sopravvivenza finanziaria dei liberi professionisti. Ma cosa ne pensa l’autore delle difficoltà che deve affrontare il lato femminile di questa variegatissima categoria? «Avere un partita Iva è un lavoro nel lavoro» spiega. «Se poi una professionista ha anche un figlio, il suo è un lavoro nel lavoro nel lavoro». E lo conferma Valentina Simeoni in Mamme con la partita Iva (Sonzogno), un libro che raccoglie la sua storia e quella di una trentina di altre donne che, con frustrazione quasi perenne e successi altalenanti, cercano di dilatare tempo ed energia per dedicarsi a figli e fatturato. «Al contrario degli uomini, molte libere professioniste» dice Simeoni «scelgono settori poco remunerativi, che consentono di ridurre il loro monte ore lavorato quando in casa arriva un bambino. E questo nostro meccanismo di (auto)limitazione è di certo uno degli scogli da superare».