Niente assegno di divorzio all’ex che non vuole lavorare. La Cassazione ha confermato l’inversione di tendenza rispetto a quanto accadeva anni fa: oggi un ex coniuge che non lavora pur avendone la possibilità, perde il diritto all’assegno divorzile.
Dopo la separazione l’ex deve rendersi indipendente
I supremi giudici, infatti, hanno dato ragione a un uomo di Ancona che aveva chiesto la revoca dell’assegno alla ex moglie, dopo che questa aveva rifiutato una proposta di lavoro. Non solo: la donna aveva avviato una relazione stabile con un nuovo compagno. «La motivazione della Cassazione non è dettata dal nuovo rapporto di convivenza o sentimentale della signora – anche se questo poteva essere ragione di annullamento dell’assegno – quanto del fatto che, secondo la Suprema corte, la donna ha violato i doveri post-coniugali, cioè di rendersi indipendente», spiega l’avvocato matrimonialista Gian Ettore Gassani, Presidente Nazionale e fondatore dell’Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani per la tutela delle Persone, dei Minorenni e della Famiglia (ANMI).
Il caso di Ancona
Il caso di Ancona ha visto protagonista una ex coppia che, in sede di divorzio, aveva pattuito un assegno divorzile di 48mila euro annui versato dall’ex marito alla ex coniuge. L’uomo, però, ha poi chiesto una revoca, dopo che la donna aveva non solo avviato una nuova relazione stabile, ma soprattutto aveva rifiutato una proposta di lavoro con una retribuzione annua di 32mila euro. La ex non aveva neppure voluto una polizza assicurativa a suo nome per ottenere una pensione integrativa.
In appello i giudici avevano stabilito che non ci fossero prove sufficienti a dimostrare il nuovo rapporto della donna con un compagno e avevano ritenuto che l’offerta di un lavoro part-time da oltre 1.000 euro al mese fosse «strumentale», cioè fatto apposta perché l’uomo ottenesse una riduzione o una revoca dell’assegno divorzile. Una posizione ribaltata dagli “ermellini” con la sentenza del 23 gennaio.
La Cassazione: niente assegno se si rifiuta un lavoro congruo
La Cassazione, invece, è partita proprio dall’offerta di lavoro, sancendo che il rifiuto senza un valido motivo «è da considerarsi una violazione dei doveri post-coniugali, che prevedono il rispetto dei principi di autoresponsabilità e autodeterminazione nei confronti dell’ex coniuge. Significa che entrambe le parti hanno il dovere di rendersi indipendenti. Dal 2017, ossia dalla sentenza Grilli-Lowenstein, è stato stabilito che l’assegno divorzile non deve essere riconosciuto a chiunque, ma solo in nome del principio di solidarietà in determinati casi. Questi sono: l’avere alle spalle un matrimonio di lunga durata; il poter dimostrare di aver contribuito alla crescita umana e professionale dell’altro, come per esempio nel caso di una donna (o di uomo) che abbia rinunciato al lavoro per seguire il coniuge e occuparsi della famiglia, oppure se ha lavorato nell’azienda dell’ex dando un contributo professionale; oppure, ancora, se non si è in grado di lavorare, magari per motivi anagrafici perché si è in età pensionabile e quindi è oggettivamente difficile rientrare nel mercato del lavoro», spiega Gassani.
L’assegno rimane, ma non per tutti
«Sia chiaro: questo non significa che l’assegno divorzile non ci sia più: oggi, però, a differenza degli anni ’70 non viene riconosciuto più a tutti a prescindere da altre condizioni. Di fatto ne ha diritto solo chi non può sostentarsi – prosegue l’esperto matrimonialista – La Cassazione, ad esempio, è molto severa nel caso di coppie giovani, perché non è più pensabile che una donna o un uomo di 30 anni si faccia mantenere dall’ex senza attivarsi per trovare un lavoro o, addirittura, rifiutandolo. La sentenza, condivisibilissima, va anche in direzione di un adeguamento agli standard europei, dove l’assegno divorzile è previsto quasi esclusivamente in presenza di specifici patti pre-matrimoniali».
Cosa succede se si ha una nuova relazione?
La donna in questione aveva anche una nuova relazione sentimentale stabile. Ma questo cosa comporta ai fini dell’assegno divorzile? «Anche questo può essere motivo di revoca dell’assegno, se si tratta di convivenza stabile, perché il nuovo compagno partecipa alle spese di mantenimento: in questo caso il primo motivo, cioè la rinuncia a un lavoro, ha assorbito il secondo, prevalendo», chiarisce Gassani.
«Va anche precisato che c’è una differenza tra assegno di divorzio e di separazione: quest’ultima condizione, infatti, sospende il matrimonio, che però non viene meno e per questo è previsto un assegno di mantenimento temporaneo. Diverso è il caso di un divorzio, che pone fine al legame: i coniugi, quindi, diventano ‘estranei’ e dunque non ha senso che sia previsto un sussidio a vita», spiega l’avvocato.
Niente “spese voluttuarie”
A distanza di pochi giorni la Cassazione è intervenuta anche con un’altra sentenza su un caso di Velletri, stabilendo che l’assegno divorzile può essere revocato in caso di “spese voluttuarie”, cioè non necessarie. Per intenderci, se invece di cercare un lavoro o utilizzare il denaro per beni di prima necessità, si spende per fare shopping: «È una sentenza rivoluzionaria, perché mai finora la Cassazione era entrata nel merito delle spese di chi riceve un assegno divorzile, limitandosi solo a stabilire se questo fosse legittimo o meno. In questo caso, invece, di fatto ha chiarito che quei soldi servono per spese indispensabili, come quelle alimentari, non certo per la palestra o la spa», chiarisce l’avvocato matrimonialista. Come hanno scritto i supremi giudici, infatti, l’assegno di divorzio ha una funzione «assistenziale e compensativa». Nel caso specifico, la donna «disponeva di redditi provati dalle risultanze dei conti correnti e dalle spese, anche voluttuarie, sostenute». Aveva anche «capacità lavorativa dimostrata dal fatto che aveva letteralmente trasformato il proprio fisico dedicandosi a un’intensa e costante attività di body building». Per questo i giudici hanno dato ragione all’ex coniuge, sospendendo l’assegno e condannando la donna a pagare le spese processuali.