In Finlandia lavoreremo 4 giorni alla settimana e solo per 6 ore al giorno: la notizia in poche ore ha fatto il giro del mondo. Peccato che fosse una fake news. La premier del Paese nord europeo Sanna Marin in realtà ne aveva parlato quando era ancora ministro dei Trasporti e la settimana corta per il momento non è nel programma di Governo. Ma tant’è: è bastato questo episodio perché in Italia si riaccendesse il dibattito sull’organizzazione della settimana in ufficio.
Sì, perché in Europa siamo quelli che lavorano di più, circa 40 ore contro una media di 32. «Gli altri Paesi, negli ultimi decenni, hanno aumentato il Pil pur concedendo tempo libero a operai e impiegati e mantenendo invariati i salari» spiega il sociologo del lavoro Domenico De Masi. «Da noi, invece, resiste la convinzione che più si sta in azienda e più si produce, con il risultato che lavoriamo per circa 1.800 ore l’anno contro le 1.400 della Germania. E, pur impiegando il 25% in più di tempo, generiamo il 20% in meno».
In Italia, tante ore di lavoro, poca produttività
A parità di ore ogni operaio o impiegato italiano rende meno del collega europeo. «Quindi, per stare al passo con gli altri Paesi, ogni dipendente deve lavorare più a lungo» spiega Sebastiano Fadda, docente di Economia e politica del lavoro all’Università degli studi Roma Tre. «Questo non vuol dire certo che siamo dei fannulloni. Produciamo meno perché l’innovazione tecnologica procede lentamente e a macchia di leopardo e perché abbiamo investito meno su ricerca e sviluppo, sull’organizzazione del lavoro e sulla formazione di manager e dipendenti».
O meglio, le grandi aziende in parte ci hanno pensato, ma il nostro tessuto imprenditoriale è fatto soprattutto di piccole e medie imprese. Che, per stare a galla, non possono rischiare grossi investimenti in ricerca, innovazione e organizzazione. Se il dipendente rende poco, il costo del lavoro per ogni prodotto di quell’azienda si alza e non c’è competitività sui mercati. «Così, per mantenere concorrenziali i prezzi, si riducono i salari» continua Fadda. «Ma non è una strategia che può fruttare sul lungo periodo, anche perché si avrebbe bisogno di più addetti. Occorre, invece, puntare sull’aumento del rendimento per ora di lavoro. Un concetto che consentirebbe davvero di ridurre l’orario».
Come si aumenta la produttività
Un percorso che non si improvvisa: serve mettere in campo una contrattazione sindacale collettiva, che tenga conto della dimensione delle aziende, dell’area geografica e dell’ambito di produzione. Lo hanno fatto in Germania, dove chi lavora nel settore metallurgico oggi può scegliere di farlo per 28 ore la settimana. In Italia ci provano in singole aziende. A Bologna i sindacati hanno siglato accordi con Ducati, Lamborghini, Marposs e altre fabbriche metallurgiche che consentono di scegliere tra aumenti in busta paga e permessi in più. Quasi tutti i 30 operai della Marposs, che produce strumenti di precisione, hanno preferito lavorare mezz’ora di meno al giorno.
Come si ottimizza il tempo
«I giovani talenti, abituati a lavorare in un ambiente internazionale, sono attirati dalle aziende che prendono iniziative del genere, per questo noi siamo passati da 40 a 30 ore in due anni» spiega Andrea Zomer, Ceo di Zupit, azienda trentina che sviluppa software. «Il nostro lavoro è fatto di concentrazione e creatività, è ovvio essere freschi alle 10 del mattino e stanchi alle 7 di sera. Restare in ufficio fino a tardi è inutile, tanto è vero che diminuendo l’orario del 25% la nostra produttività non ne ha risentito: ora che tutti siamo alla scrivania nello stesso momento, dalle 8 alle 14, in proporzione facciamo molto più di quando uscivamo alle 18. Prima infatti c’erano le pause, ci si prendeva del tempo per guardare Facebook, organizzare il weekend o prenotare una visita medica». Adesso tutto questo alla Zupit lo fanno dopo le 14 così al mattino sono focalizzati sul lavoro. «Io posso finalmente seguire le mie bambine con i compiti» racconta Boris Sclausero, 47 anni, sviluppatore. «E mia moglie ha potuto riprendere la sua attività lavorativa e avere più tempo per sé».
Come usare il lavoro flessibile
In Italia la legge non consente di scendere sotto le ore stabilite dal contratto di categoria. Così per intervenire sull’orario senza dimezzare gli stipendi, le aziende pronte per la settimana corta hanno dovuto ricorrere al part time o a soluzioni alternative. «Noi abbiamo lasciato autonomia ai 200 dipendenti» spiega Dario Righetto, marketing director di GraphiStudio, azienda friulana leader nella stampa e rilegatura di album di nozze. «Abbiamo ristrutturato il flusso di lavoro in modo da procedere per obiettivi e scadenze, così ognuno può operare in autonomia quando vuole, anche di notte o nei weekend, e l’azienda è sempre aperta. Molti genitori lavorano dalle 7 alle 15 e nel pomeriggio stanno con i figli».
Al momento spingere sul pedale del lavoro flessibile resta l’unica strada percorribile. Secondo i dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, nell’ultimo anno, il lavoro da remoto è aumentato del 20% nel pubblico e nelle grandi imprese e del 12% tra le piccole e medie.
Settimana corta: gli esempi virtuosi in Europa
Permettere ai dipendenti di conciliare famiglia e ufficio e motivarli rendendoli più efficienti, in genere, conviene alle aziende, come dimostrano alcuni casi studio. La svedese Filimundus, che sviluppa app per smartphone, ha ridotto a 6 ore la giornata, mentre nella neozelandese Perpetual Guardian, che si occupa di pianificare e organizzare i patrimoni, si lavora solo 4 giorni alla settimana con lo stipendio di 5: entrambe hanno visto scendere del 25% le assenze per malattia.
Microsoft ha sperimentato la settimana corta senza riduzione di stipendio negli uffici di Tokyo: ha visto aumentare del 40% la produttività e abbassare del 23% i costi (per esempio per l’elettricità). La Carter&Benson, società milanese di head hunter con 25 dipendenti, ha ridotto la settimana di mezza giornata per evitare il turn over dei dipendenti e il costo per la formazione dei nuovi assunti.