Il Giappone, noto come Paese “votato” al lavoro, potrebbe presto mettere in atto una rivoluzione: la settimana corta, con 4 giorni in ufficio (o smart working) e un weekend lungo di 3. A firmare un disegno di legge è Kuniko Inoguchi, esponente politica del Partito Liberal Democratico, secondo cui «il Giappone ha una capacità latente di creare stili di lavoro flessibili». Indubbi i benefici in termini di riduzione di lavoratori che si affollano sui mezzi pubblici, specie in pandemia, ma il vantaggio principale sarebbe soprattutto un miglioramento della qualità di vita e, secondo gli esperti, una maggiore produttività. Secondo Inoguchi ci sarebbe più tempo libero a disposizione da trascorrere con i familiari, dedicare a se stessi o anche a «un’attività di formazione o di imprenditoria personale alternativa».
Cos’è la settimana accorciata
La proposta giapponese, in realtà, non è una novità. La Svezia è stata tra i primi Paesi a sperimentare forme di lavoro flessibile, riducendo l’orario settimanale da 8 a 6 ore. In Finlandia, la premier Sanna Marin è una convinta sostenitrice della settimana lavorativa di 4 giorni: «Credo che le persone meritino di trascorrere più tempo con le loro famiglie, dedicandosi agli hobby e altri aspetti della vita, come la cultura». «Nei paesi nordici, infatti, non è una novità, mentre in Italia i tentativi passati risalgono agli anni ’90 e furono fallimentari, con la caduta del Governo Prodi legata proprio alla richiesta di riduzione delle ore lavorative avanzata da Fausto Bertinotti» spiega Roberta Paltrinieri, sociologa dell’Università di Bologna.
Lavorare meno, lavorare meglio
I sostenitori della settimana lavorativa corta ritengono che possa aumentare la produttività. Non a caso tra loro ci sono anche aziende come Unilever, che a dicembre ha offerto la possibilità di riduzione da 5 a 4 giorni lavorativi ai propri dipendenti della divisione neozelandese, pur mantenendo lo stipendio invariato (mentre in Giappone scatterebbe un taglio del 20%). Anche il governo Sanchez in Spagna sta valutando l’ipotesi (4 giorni e 32 ore), a parità di salario. D’altro canto proprio in Giappone Microsoft, pur riducendo la settimana lavorativa, recentemente ha verificato un aumento di produttività, proprio come accaduto in Svezia dove, tra il 2015 e il 2017 si sperimentò la riduzione dell’orario da 8 a 6 ore per le infermiere delle case di riposo. Il risultato fu un maggior rendimento dei lavoratori, un miglioramento della qualità di vita e l’assunzione di nuovo personale: «A livello individuale il vantaggio principale è proprio la possibilità di cambiare la propria vita. La settimana corta garantisce una riappropriazione dei tempi e credo che in Giappone l’obiettivo sia anche quello di cambiare uno stile di vita improntato quasi esclusivamente al lavoro. Lì lavorano molto più di noi, in media 50/60 ore alla settimana – spiega la sociologa – Ridurre i giorni di lavoro, però, prevede anche un cambio di mentalità».
«Non è detto che il giorno in più alla settimana senza lavoro finisca con l’essere tempo libero, quanto piuttosto tempo liberato: liberato dal lavoro che può diventare tempo da dedicare ai consumi, per esempio culturali e alimentari; oppure da riservare alle relazioni sociali, che sono molto importanti e contribuiscono al benessere personale. Oppure ancora alla riproduzione, che significa anche cura della famiglia» spiega Paltrinieri.
La settimana corta è donna?
In Giappone a proporre la settimana lavorativa corta è una donna, come in Finlandia, forse perché avvantaggerebbe le lavoratrici? «Sicuramente ne godrebbero maggiormente, perché quel giorno in più a disposizione potrebbe diventare utile per occuparsi anche di faccende per le quali normalmente si fatica a trovare il tempo, come la gestione delle pratiche burocratiche o la cura della famiglia e della casa. Proprio questo, però, è uno dei rischi: che si finisca con l’aumentare il carico per le donne, senza che a loro rimanga tempo realmente libero» dice la sociologa.
L’ansia di non farcela in 4 giorni
Un altro rischio è quello del burnout, paventato anche in Giappone, dove la sindrome da esaurimento è già molto diffusa: «L’idea di lavorare un giorno in meno potrebbe far aumentare l’ansia di non riuscire a portare a termine i propri compiti, dovendoli concentrare in 4 giorni invece che 5. Per questo è importante non solo ridurre i giorni, ma cambiare l’organizzazione del lavoro, sia a livello aziendale che personale. L’obiettivo diventa ottimizzare e rendere più produttivi i tempi a disposizione. In questo lo smart working ci ha insegnato che parte del tempo che prima dedicavamo, per esempio, alle relazioni personali in ufficio, ora è riservato esclusivamente al lavoro. Anche le riunioni a distanza ora hanno tempi mediamente più contingentati, dettati dalle piattaforme – osserva l’osserva – Certo, questo significa imparare a non farsi distrarre, specie se in casa non si è da soli, o a darsi anche dei limiti, perché i dati dimostrano che con lo smart working, aumentato con la pandemia, sono aumentate le ore di lavoro».
La formula del 3-2-2
Un’alternativa alla settimana di 4 giorni lavorativi è anche il cosiddetto 3-2-2, ossia tre giorni di lavoro in presenza, 2 in smart working e 2 liberi: «Perché funzioni non si deve però commettere l’errore di pensare che il lavoro in smart working possa essere “recuperato” in ufficio, altrimenti si rischia che aumenti lo stress complessivo» aggiunge Paltrinieri.
Un’altra idea di benessere
«L’idea della settimana corta presuppone una mentalità diversa, più simile a quella dei paesi nordici, dove non si lavora dopo le 17 e il venerdì solo mezza giornata. Nella nostra concezione, invece, si guarda alla quantità di ore lavorate più che alla qualità o efficienza – osserva Paltrinieri – Ridurre il tempo lavoro, però, può aumentare il benessere, come dimostrano molti studi. Perché ciò avvenga occorre un cambio culturale e l’abbandono del modello americano, dove la propria identità e realizzazione derivano dalla quantità di denaro guadagnato, che a sua volta è strettamente legato al lavoro e al tempo che vi si dedica. Molti studi negli ultimi anni, invece, hanno rivalutato l’importanza del tempo per sé, suggerendo di affiancare o sostituire al PIL (il Prodotto Interno Lordo) un parametro nuovo nella valutazione del benessere di un Paese, ossia il FIL, l’indice di Felicità Interna Lorda» conclude la sociologa.