All’inizio c’erano le cure termali per gli operai e le colonie estive per i loro figli: iniziative sporadiche, paternalistiche e offerte solo dai grandi gruppi. Parenti alla lontana del welfare aziendale odierno: adesso, secondo Aiwa (Associazione italiana welfare aziendale), 4 imprese su 10 hanno già in pista piani più o meno ambiziosi e nel 35% delle imprese con oltre 100 dipendenti i servizi offerti sono almeno 10. La creatività si scatena: premi di produttività trasformati in rate del mutuo, buoni pasto, servizi di lavanderia e giardinaggio ma anche assistenza sanitaria, previdenza integrativa e orari flessibili, per citare alcune voci.
Le imprese integrano lo Stato
In questo teatro dinamico e un po’ disordinato, qualche attore entra nell’ombra e compaiono nuovi protagonisti. Un dato è certo: per i noti problemi di bilancio, lo Stato sociale arretra. Nel farlo, concede alle aziende di sforbiciare di netto tasse e contributi sui servizi ai dipendenti. L’alleggerimento fiscale più recente, con la legge di Stabilità 2018, tocca anche gli abbonamenti a treni, bus e tram. Mentre il settore pubblico rimpicciolisce, irrompono sulla scena operatori privati, come banche e società di brokeraggio, che forniscono alle aziende un’ampia rete di servizi su piattaforme di welfare: 3 anni fa erano una manciata, oggi sfiorano la novantina.
La babysitter è meglio del voucher
«Se le aziende usano il welfare solo per risparmiare sul fisco, il discorso resta di corto periodo. Serve una visione più ampia» dice Anna Zattoni, presidente di Jointly, startup a vocazione sociale che ha vinto il premio More than Pink patrocinato dal ministero della Salute per il servizio Fragibilità (una rete di supporto creata per i lavoratori che si occupano di un familiare disabile o non autosufficiente). «I dipendenti considerano 3 volte più utili dei buoni in denaro i servizi su misura. Non basta dare a una mamma un voucher per il nido se poi lei fatica a trovarne uno in zona. Così chi si prende cura di un genitore non autosufficiente ha bisogno anche di sostegno psicologico e di aiuto con le pratiche burocratiche per la badante».
Servizi, questi ultimi, la cui domanda cresce, mentre le risposte arrancano, tanto che 1 caregiver su 4 lascia l’impiego o rinuncia alla carriera. Si è scatenata una guerra silenziosa tra nonni e nipoti per diventare destinatari indiretti dei benefit? «No, il welfare aziendale non stimola la competizione tra le generazioni, ma intercetta i bisogni: con la popolazione che invecchia è naturale che ci sia maggiore richiesta di sostegno economico per chi necessita di una badante» spiega Emmanuele Massagli, presidente di Aiwa.
I benefit cambiano a seconda della città
«Ogni territorio ha le sue specificità» continua Massagli. « A Milano, dove lavorano molti giovani e single, il welfare aziendale di successo è quello declinato, per esempio, sotto forma di abbonamenti alle palestre e altre opportunità di svago». Ci sono realtà, nate provinciali ma ora di fama e dimensione internazionale, che attraverso il welfare alimentano la terra in cui affondano le radici. È il caso, per esempio, della Ferrero: ad Alba (Cuneo) ha la sua Fondazione con cui, tramite iniziative culturali e in ambito sanitario, mantiene saldi legami con e fra gli ex dipendenti. Sta costruendo una scuola materna e nel suo nido prevede posti anche per bambini della comunità locale i cui genitori non lavorano in Ferrero. Un’altra prospettiva geo-demografica delle Italie del welfare la offre Natura Iblea, azienda agricola di ortofrutta biologica di Ispica (Ragusa) finita sul podio del Welfare Index Pmi 2017 (premio assegnato da Generali Italia alle piccole e medie imprese con il miglior livello di benessere dei dipendenti).
Il rischio è la disuguaglianza
C’è chi evidenzia una criticità di questa industria scalpitante del welfare: «Finché un imprenditore, attingendo dai suoi profitti, offre varie prestazioni ai dipendenti, questi sono più fortunati dei colleghi in imprese omologhe. Ma si tratta della libera scelta di un datore di lavoro che si traduce in una disuguaglianza tollerabile» dice Elena Granaglia, professore di Scienza delle finanze all’università Roma Tre. «Diverso quando il welfare si appoggia ad agevolazioni fiscali. Le imposte “abbuonate” portano a ridurre le entrate fiscali e, di conseguenza, i servizi offerti dallo Stato anche a chi dipendente non è. L’altro possibile effetto, per mantenere le stesse prestazioni statali, è un aggravio delle tasse su tutti i cittadini. Però, perché io che non lavoro in un’impresa dal welfare fiorente dovrei sobbarcarmi parte dei costi dei benefit goduti da altri?».
Lo stipendio perde importanza
Se trovare una risposta soddisfacente per tutti alla domanda della professoressa è difficile, certi invece sono 2 effetti sottesi al welfare ai tempi della quarta rivoluzione industriale. «Da un lato» spiega Massagli «quando abbraccia formule elastiche di presenza in ufficio, come lo smart working, imprime una nuova organizzazione del lavoro: lo lega agli obiettivi e non al monte ore. Dall’altro, porta a una valutazione diversa del trattamento economico ricevuto, perché la busta paga è solo una delle tante voci». L’ultimo Rapporto sulle retribuzioni di Od&m, società della multinazionale italiana del lavoro GiGroup, fotografa i salari di varie categorie, dai dirigenti agli operai nel primo semestre del 2017: se si guarda non solo lo stipendio ma la cosiddetta total remuneration, i benefit e servizi di welfare aziendale fanno lievitare di circa il 20% il guadagno effettivo percepito. E se presto la domanda da fare, quando si cerca un lavoro, non fosse più: «Che stipendio avrò?», ma: «Di che welfare beneficerò?».
I numeri
94% le intervistate, in una ricerca di Edenred e ManagerItalia, che considerano il welfare aziendale utile per le donne. 88% I dipendenti che chiedono come welfare aziendale forme di sostegno familiare e la flessibilità di orario. 28% l’aumento, in 5 anni, della richiesta di servizi alla persona (colf, baby sitter, assistenza ai familiari anziani non autosufficienti). Fonti: Indagine Edenred Manageritalia (Gruppodonne) 2017 e ricerca Doxa-Edenred 2016 e Un welfare aziendale per le donne, a cura di Filippo Di Nardo (Guerini Next).
5 parole per capire
Esistono tanti tipi di welfare. Li spiega qui il presidente di Aiwa Emmanuele Massagli.
Pubblico Detto anche primario, si riferisce a prestazioni, servizi e benefici forniti dallo Stato per rispondere a bisogni di base legati, per esempio, a salute, famiglia e infanzia e per tutelare i cittadini in casi particolari come la malattia o la disoccupazione.
Secondario È costituito dagli interventi a finanziamento non pubblico erogati da privati del mondo profit e del non profit (dalle aziende al volontariato).
Aziendale È l’evoluzione del welfare di fabbrica: cioè l’insieme delle misure con finalità di rilevanza sociale offerte dal datore di lavoro ai propri dipendenti.
Sussidiario È quello finanziato da risorse private (sussidiarietà orizzontale) o erogato dagli enti locali (sussidiarietà verticale) per integrare il welfare pubblico.
Contrattuale Deriva da un contratto, individuale o, più spesso, collettivo (nazionale, territoriale o aziendale).