Il 26 aprile 1986 esplodeva il reattore numero 4 della centrale di Chernobyl , nel nord dell’Ucraina: il più tragico incidente nella storia del nucleare , eguagliato solo dal disastro di Fukushima , in Giappone, nel 2011. La radioattività sprigionata, pari a 400 bombe atomiche, propagò sull’Europa la sua nube tossica , colpendo soprattutto la vicina Bielorussia.
Oggi, 30 anni dopo, 5 milioni di persone continuano a vivere nelle zone contaminate mangiando cibo radioattivo, abbandonate da governi che minimizzano i danni. A seguito dell’esplosione, tanti italiani si offrirono di ospitare per brevi periodi di vacanza “i figli di Chernobyl”. Tre di loro ci raccontano perché non li hanno mai dimenticati .
L’EMERGENZA NON È ANCORA FINITA
A 30 anni dal disastro, nei territori fra Bielorussia, Ucraina e Russia colpiti dalle radiazioni di Chernobyl, abitati da circa 5 milioni di persone, l’emergenza non è terminata. Lo denuncia Emanuela Zuccalà, autrice di questo articolo, nel libro Giardino Atomico. Ritorno a Chernobyl (Infinito edizioni, a sinistra la copertina).
Alcuni elementi radioattivi, come il Cesio 137 e lo Stronzio 90 impiegano secoli per estinguersi. Secondo uno studio di Greenpeace, nei cereali i livelli di radiazioni sono addirittura aumentati e i più esposti sono i bambini perché il latte assorbe soprattutto lo Stronzio 90, elemento killer per ossa e denti. L’82% dei piccoli analizzati nel 2015 dal Centro ucraino Ecologia e Salute presentava disturbi cardiocircolatori; il 55%, alterazioni alla tiroide. Intanto, per la crisi, i governi tagliano i programmi di protezione per chi vive nelle zone a rischio.
In casa, accanto alle foto dei suoi cari, Roberto Rebecchi tiene quella di Olga: «Una ragazza bielorussa disabile che, dal suo villaggio contaminato, abbiamo portato in un centro dove ha vissuto con dignità fino alla sua morte, a soli 16 anni. Era bravissima a intrecciare collane di perline, sembravano gioielli veri».
Rebecchi ha 57 anni e vive nel Modenese. Dal 1995 coordina i progetti di Legambiente Solidarietà in Bielorussia, ma da ogni viaggio torna con la sensazione che non sia mai abbastanza. «Sono capitato in un villaggio terribile, 250 abitanti a soli 15 km da Chernobyl, senza luce né acqua, con l’alcolismo che dilaga. Avrei voluto spostarli tutti in luoghi più puliti, ma per colpa della burocrazia ce l’ho fatta solo con una donna e i suoi 3 figli, comprando una casa altrove con appena 5.000 dollari. Chi poteva scappare dalle zone radioattive lo ha già fatto: sono rimasti i più deboli. Mi toccano la loro rassegnazione e le enormi aspettative che ripongono in noi».
In questi anni Rebecchi ha realizzato in Bielorussia un ambulatorio mobile per lo screening del tumore alla tiroide causato dalle radiazioni e un centro per le vacanze terapeutiche nel nord della Bielorussia non contaminato. «Ma la mia paura è che, passato il trentennale di Chernobyl, su questa gente calerà di nuovo il silenzio».
«Avevo ospitato dei bimbi di Chernobyl e nel 1994 andai a Brest, in Bielorussia, a conoscere le loro famiglie». Da allora, la vita di Massimo Bonfatti è cambiata. Infermiere a Carmagnola (To), 63 anni, ha fondato l’associazione Mondo in cammino per aiutare la gente delle zone radioattive.
«All’inizio costruivo serre per coltivare verdura pulita» racconta «finché ho lasciato l’anima a Dubovy Log, un villaggio con radiazioni altissime dove il governo ha chiuso tutto, dall’asilo alla posta, come a cancellare la sua gente». Bonfatti ha organizzato un doposcuola per i bambini «ma ci hanno tagliato la luce. Non mi arrendo: sto già cercando dei generatori».
In Bielorussia s’è letteralmente innamorato: «Mia moglie viene da lì, nostro figlio ha 9 anni, è il mio bimbo di Chernobyl» sorride, confidando i suoi problemi al cuore per le radiazioni assorbite nei frequenti viaggi da volontario. «Ora sono ripartito in quarta: in Ucraina, lo Stato ha cancellato dalla mappa della contaminazione il villaggio radioattivo di Radinka, solo per non versare sussidi. La mensa scolastica è stata chiusa, i bambini stanno a digiuno. Ho raccolto 20.000 euro per riaprirla, ma nella zona restano altri 1.800 piccoli da aiutare». Il suo appello alla solidarietà è partito sul sito Mondoincammino.org.
Lyudmila è arrivata a Terni dalla Bielorussia nell’estate del 1993. A 8 anni non aveva mai visto un bagno e mangiava proteggendo il piatto con le braccia. Patrizia Fortunati allora era una studentessa. «Avevo convinto i miei genitori ad accogliere un bimbo di Chernobyl» racconta. «Qui a Terni c’è la fondazione Aiutiamoli a vivere (aiutiamoliavivere.it), che dal 1992 ha ospitato in Italia 60.000 piccoli bielorussi per le vacanze terapeutiche utili a smaltire la radioattività. Mia madre era scettica: “Come si fa con la lingua russa? Un mese è impegnativo”. Ma con Lyudmila è stato subito amore: era sorridente, curiosa, è bastato farle provare l’altalena e la piscina per metterla a suo agio. È venuta da noi per 10 anni. Quando mi sono sposata, è stata lei a portare le fedi».
Oggi Lyudmila ha 31 anni e fa la contadina in Bielorussia: «Desideravamo che si trasferisse in Italia, ma è troppo attaccata alla sua terra » dice Patrizia. «Ha avuto 3 figlie e la maggiore, l’anno scorso, è stata in vacanza da noi. I miei genitori sono andati spesso in Bielorussia, ci consideriamo una famiglia allargata».
Patrizia ha scritto un libro sul legame speciale con Lyudmila (Marmellata di prugne, edizioni Ali&No): «Fa capire che accogliere i bambini di Chernobyl non è un gesto da eroi, ma un’esperienza che porta più amore nelle nostre vite».
«A Chernobyl l’errore umano si è innescato su misure di sicurezza obsolete: non può ripetersi un incidente simile». Non ha dubbi Maurizio Cumo, professore emerito di Impianti nucleari all’università La Sapienza di Roma, che ha monitorato molte centrali in Europa e nell’ex Urss. In Italia il nucleare è proibito dal 2011, mentre nel mondo ci sono 442 centrali e 65 in costruzione.
«Oggi rispondono a standard internazionali per la velocità di spegnimento dei reattori e hanno solide protezioni antisismiche» precisa l’esperto. «I reattori degli anni ’70 sono in smantellamento e quelli di nuova generazione sono progettati per durare 60 anni. Nel 2011 a Fukushima i reattori erano protetti da muri alti 10 metri: si prevedeva che, in caso di tsunami, le onde non avrebbero superato i 6 metri, invece furono di 14. Ma i nuovi reattori sono chiusi da cassoni di calcestruzzo, a prova di maremoto».