Mentre l’atmosfera si riscalda, gli oceani di tutto il mondo stanno diventando sempre più privi di ossigeno, costringendo molte specie a migrare dai loro habitat. Non solo. I ricercatori si aspettano che molte zone del pianeta andranno incontro all’inevitabile declino della diversità delle specie. Ed esclusivamente quelle in grado di far fronte alle condizioni più difficili riusciranno a sopravvivere.
I tropici si svuoteranno man mano che i pesci si sposteranno verso acque più ossigenate, afferma Daniel Pauly, ricercatore dell’Università della British Columbia e le specie marine che già vivono ai poli si estingueranno.
“Zone minime di ossigeno” negli oceani
I livelli di ossigeno negli oceani sono scesi di oltre il 2% tra il 1960 e il 2010 e si prevede che diminuiranno fino al 7% rispetto al livello del 1960 nel prossimo secolo. Alcune zone vanno peggio di altre: esempio lampante la parte superiore del Pacifico nord-orientale che ha perso più del 15% del suo ossigeno. Secondo il rapporto speciale sugli oceani del 2019 dell‘Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), dal 1970 al 2010, il volume delle “zone minime di ossigeno” negli oceani è aumentato tra 3% e 8%.
Cala l’ossigeno negli oceani: quali le cause?
Il calo di ossigeno è determinato da alcuni fattori. In primo luogo, le leggi della fisica impongono che l’acqua più calda possa contenere meno gas disciolto rispetto a quella più fredda. Mentre il pianeta si riscalda, le acque superficiali dei nostri oceani perdono ossigeno, oltre ad altri gas in esse disciolti. Ciò è causa della metà circa della perdita di ossigeno osservata finora nei mille metri superiori dell’oceano.
Più in profondità, i livelli di ossigeno sono in gran parte governati dalle correnti che mescolano le acque superficiali verso il basso. Lo scioglimento dei ghiacci aggiunge acqua fresca e meno densa che resiste al rimescolamento verso il basso in alcune zone. L’alto tasso di riscaldamento atmosferico ai poli, rispetto all’equatore, smorza anche i venti che guidano le correnti oceaniche.
Infine i batteri. Vivono in acqua e si nutrono di fitoplancton e altri residui organici mentre cadono sul fondo del mare, consumando ossigeno. Una dinamica particolarmente diffusa lungo le coste, dove il deflusso dei fertilizzanti alimenta la fioritura delle alghe, che a loro volta alimentano i batteri che assorbono l’ossigeno.
Verso la “deossigenazione”
Il Global Ocean Oxygen Network, gruppo scientifico istituito in seno alle Nazioni Unite, riferisce che dagli anni ’60 l’area di acqua a basso contenuto di ossigeno nell’oceano aperto è aumentata di 1,7 milioni di miglia quadrate (4,14 milioni di kmq). È un’area poco più grande della metà del Canada. Entro il 2080, secondo uno studio realizzato nel 2021, oltre il 70% degli oceani globali sperimenterà una notevole deossigenazione.
Gli impatti sulla vita marina
In generale, un pesce caldo ha un metabolismo più elevato e ha bisogno di più ossigeno. Le trote, ad esempio, necessitano di una quantità di ossigeno disciolto da cinque a sei volte maggiore quando le acque sono miti a 24°C rispetto a quando sono fredde a 5°C. Quindi, mentre le acque si riscaldano e l’ossigeno decresce, molte creature marine subiscono un contraccolpo. “I pesci richiedono molto ossigeno, in particolare quelli grandi che ci piace mangiare”, afferma Andrew Babbin, biogeochimico del MIT.
In questo momento, ci sono circa 6 milligrammi di ossigeno per litro di acqua di mare ai tropici e 11 milligrammi per litro ai poli. Se i livelli scendono al di sotto di 2 milligrammi per litro (una riduzione dal 60% all’80%), come spesso accade in alcune zone, l’acqua è ufficialmente ipossica, ovvero troppo povera di ossigeno per sostenere molte specie.
I pesci spesso cercano di nuotare lontano da acque a basso contenuto di ossigeno, ma se non ci riescono diventano pigri. I bassi livelli di ossigeno influenzano quasi tutto, compresa la crescita dei pesci, la riproduzione, i livelli di attività e la sopravvivenza. Una serie di cambiamenti genetici e metabolici possono aiutare i pesci a conservare energia, ma solo entro certi limiti. In generale, i pesci più grandi sono più colpiti semplicemente perché il loro rapporto tra volume corporeo e branchie è maggiore, rendendo più difficile nutrire le loro cellule con l’ossigeno.
In cerca di ossigeno
I pesci si stanno già muovendo per trovare più ossigeno. Quelli che “abitano” le acque più profonde possono spostarsi verso acque più fredde, e quindi più ossigenate, mentre i pesci che vivono nelle prime centinaia di metri della colonna d’acqua, possono spostarsi verso la superficie per riprendere fiato.
In uno studio sui pesci della barriera corallina della California tra il 1995 e il 2009, è stato osservato come 23 specie marine si siano spostate verso la superficie a una media di 8,7 metri ogni dieci anni. Nell’Atlantico nord-orientale tropicale, la diminuzione dei livelli ossigeno ha fatto sì che i tonni si siano spinti in uno strato d’acqua più stretto, perdendo nel complesso il 15% del loro habitat abituale dal 1960 al 2010.
Ossigeno negli oceani, un mosaico di aree
Sebbene il riscaldamento e la deossigenazione spesso vadano di pari passo, i due effetti non sono sempre perfettamente abbinati, afferma Wilco Verberk, ecofisiologo presso la Radboud University nei Paesi Bassi. Il risultato è un mosaico di aree troppo calde o troppo povere di ossigeno affinché le varie specie marine possano prosperare. I ricercatori stanno attualmente cercando di mappare gli effetti previsti per diverse specie, studiando come la temperatura e l’ossigeno potrebbero limitare i loro futuri habitat.
Ridurre le emissioni di gas serra
Una volta “trasferitisi” in acque dove possono “respirare”, i pesci si troveranno alle prese con la ricerca del cibo ed eventuali nuovi predatori. “La mancanza di ossigeno sarà un fattore scatenante per spostarsi in altri luoghi, ma questi non sono vuoti”, continua Verberk. “Incontreranno altre specie che ci vivono ed entreranno in competizione”.
Un esempio? “I granchi – afferma Pauly -. Stanno attualmente marciando sull’Antartide mentre quelle acque si riscaldano. Banchetteranno con molluschi non protetti, ci sarà una distruzione di massa”.
Se si tracciano le tendenze del riscaldamento e della perdita di ossigeno, l’endpoint catastrofico per l’oceano tra migliaia di anni avrebbe l’aspetto di “una zuppa invivibile”, sostiene Pauly. L’oceano ha già zone ipossiche sporadiche, dice, “ma se immaginiamo tutte le zone ‘morte’ unite in una sola, ciò significherebbe la fine. Se non riusciamo a gestire le emissioni di gas serra – conclude – dobbiamo aspettarci che ciò accada”.