A 38 anni dalla messa al bando dei cluorofluorocarburi (Cfc), impiegati come refrigeranti, isolanti e nei propellenti, il buco dell’ozono si sta sensibilmente restringendo. La conferma arriva dallo studio guidato da Peidong Wang del Massachusetts Institute of Technology e pubblicato sulla rivista Nature.
La funzione dell’ozono nella stratosfera
Nonostante la grande variabilità stagionale dello strato di ozono, dovuta anche ad eventi meteorologici o ai gas serra, il buco dell’ozono si sta finalmente chiudendo. Balzato agli “onori” delle cronache internazionali alla fine degli anni ’80, l’ozono è un gas che tende a salire ad alte quote, dove forma una sorta di sottile strato attorno al pianeta, nella stratosfera, a una quota compresa tra 15 e 50 chilometri.
La sua funzione risulta fondamentale per la vita sulla Terra perché in grado di intercettare e filtrare gran parte delle radiazioni ultraviolette prodotte dal Sole. E sappiamo che l’esposizione non protetta danneggia il DNA delle cellule della pelle, producendo difetti genetici o mutazioni che possono portare a cancro della pelle e l’invecchiamento precoce.
La scoperta del buco e il protocollo di Montreal
Analizzando le quantità di ozono presenti nell’atmosfera, nel 1985 è stata scoperta la presenza di un vero e proprio buco presente sopra l’Antartide: un campanello d’allarme che ha portato alla luce i pericoli per l’ozono dovuti in modo particolare al rilascio dei cluorofluorocarburi. Dispersi nell’ambiente, questi gas bloccavano i meccanismi che permettevano la formazione di nuovo ozono. I dati raccolti dati hanno portato rapidamente alla firma dell’accordo di Montreal, che ha messo al bando i Cfc a partire dal 1987.

I segnali di ripresa
I primi segnali di ripresa dell’ozono sono stati chiaramente visibili a partire dal 2016, grazie a misurazioni che con il passare del tempo hanno via via mostrato una riduzione del buco. È noto tuttavia che la distribuzione e lo spessore della fascia dell’ozono sono fortemente influenzati anche da altri fattori: la presenza dei gas serra, come CO2 e metano, così come da eventi meteorologici di grandi dimensioni, ad esempio uragani o fenomeni ciclici come El Nino.
«Se rilevare un aumento statisticamente significativo dell’ozono è relativamente semplice, attribuire questi cambiamenti a fattori specifici è più difficile», ha detto Wang. La bontà della ricerca in questione è stata proprio quella di aver stabilito per la prima volta e con sufficiente chiarezza quali fossero le reali cause della chiusura del buco dell’ozono.
Chiusura completa del buco: la data X
«Finora sono state molte prove che indicano che il buco dell’ozono antartico sia migliorato – ha commentato Susan Solomon del Mit e tra le autrici della ricerca -, ma questo è il primo studio che ha quantificato il recupero del buco dell’ozono». In particolare, ha permesso di determinare che la sua guarigione non può essere attribuita a dinamiche naturali bensì al tagli delle emissioni dei Cfc. Guardando in prospettiva, secondo gli autori dello studio il recupero completo della fascia di ozono potrebbe essere completata entro il 2035.