Per prima cosa, «bisogna fare chiarezza». Ne è convinto Marco Vasari, presidente del consorzio nazionale per il riciclo organico degli imballaggi in plastica biodegradabile e della frazione organica dei rifiuti urbani Biorepack. Si tratta del primo consorzio al mondo, in questo settore, per numero di impianti e imprese attive sul territorio. E, in Europa, lo è anche per la quantità di umido pro-capite raccolto (che in Italia si aggira sui 100 chilogrammi per abitante all’anno).

Bioplastica: facciamo chiarezza

Foto di Leo Torri

Su che cosa è necessario fare chiarezza?

«Con il termine bioplastica si tende a definire sia la materia prima da cui il materiale plastico ha origine – quindi, se è “bio”, da fonte rinnovabile – sia il suo fine vita, cioè la sua biodegradazione. Ma questi due mondi non sempre si parlano».

Significa che non tutto ciò che è prodotto con materiali derivati da fonti rinnovabili e/o “bio” è automaticamente compostabile?

«Esatto. Il polietilene con cui spesso, ancora oggi, si fanno le buste della spesa deriva per esempio dalla canna da zucchero, la quale viene sottoposta a processi di fermentazione da cui si ottengono prima l’etanolo, poi l’etilene e, infine, il polietilene. Ma questo materiale è praticamente uguale al polietilene fossile derivato dal petrolio e dura qualche migliaio di anni, prima di distruggersi».

Voi quali materiali gestite, invece?

«Tutto ciò che è biodegradabile, a prescindere dall’origine».

Esistono materiali di origine fossile che lo sono?

«Sì, perché esistono alcuni processi di sintesi e “manipolazione” di molecole derivate dal petrolio che possono modificare le loro strutture chimiche, rendendo possibile anche la biodegradazione. Ma ci sono anche materiali come l’acido polilattico (PLA) – prodotto sempre a partire dagli zuccheri – che è interamente “bio” ma anche compostabile, e che oggi viene usato per produrre bicchieri, piatti e posate monouso o alcune fibre sintetiche».

“Compostabile” e “biodegradabile” significano la stessa cosa?

«No, perché l’attributo “biodegradabile” non spiega né dove né quando né come avviene la degradazione. Dice solo che, attraverso l’azione dei microorganismi, un determinato materiale si trasformerà prima o poi in anidride carbonica e acqua. Con il termine “compostabilità”, invece, si indica la biodegradazione che avviene in un posto e in un tempo definiti. Ossia in ambienti dove ci sono temperatura, tempi e umidità idonei e controllati, come nei sistemi di compostaggio industriale».

Prima diceva che molti sacchetti per la spesa, ancora oggi, non sono a norma. Come mai?

«Il rapporto è di 70 a norma e 30 no. Il 95% dei sacchetti comunemente usati per fare la spesa deriva da bioplastiche, ma, proprio per il discorso che facevamo prima, quasi un terzo non è biodegradabile. Nella grande distribuzione lo sono quasi tutti, nei mercati spesso no. Ma questo non è colpa degli ambulanti: è l’approvvigionamento che è sbagliato».

E i famigerati sacchetti per la frutta e verdura, che tanto scalpore avevano suscitato per il costo aggiuntivo di 2 centesimi?

«Quelli per legge devono essere sia 100% compostabili sia prodotti almeno al 60% da fonti rinnovabili. E lo sono».

Nella raccolta dell’umido, in Italia, siamo virtuosi?

«Sì, ed è la dimostrazione che, quando le cose sono fatte bene, anche in Italia funzionano. Milano è la città più grande d’Europa che fa la raccolta porta a porta e la Lombardia è un modello nella raccolta differenziata».

Quanto umido produciamo o, meglio, “raccogliamo” oggi in Italia?

«Nel 2023 abbiamo recuperato circa 5 milioni di tonnellate di rifiuti umidi da cucine e mense, producendo 1,9 milioni di tonnellate di compost. Che corrispondono a 5,6 milioni di tonnellate di Co2 risparmiate rispetto all’avvio dei rifiuti in discarica».

E con tutto questo compost che cosa si fa?

«Si ottengono materie organiche preziose per i terreni agricoli, che contribuiscono a contrastare anche degrado, desertificazione e dipendenza dai fertilizzanti chimici. Valorizzare la raccolta della frazione umida dei rifiuti attraverso il compostaggio aiuta a mantenere la salute del suolo. Nel resto del mondo si pensa alla biodegradazione come soluzione per non vedere più la plastica in giro sulla spiaggia. In Italia ci si (pre)occupa più di riciclare gli imballaggi per dare loro nuova vita».

Voi che ruolo avete in questo circolo virtuoso?

«Biorepack sottoscrive accordi con i Comuni e gli enti preposti alla raccolta, trasporto e trattamento degli imballaggi in bioplastica compostabile insieme all’umido. Noi li andiamo a pesare, a controllare e poi paghiamo i Comuni per la quantità degli imballaggi compostabili che ci sono dentro. Nei primi tre anni di attività, il nostro consorzio ha consentito così alla filiera della bioplastica di gestire al meglio il riciclo organico dei propri imballaggi, contribuendo positivamente ai risultati e promuovendo anche il corretto conferimento dei rifiuti da parte dei cittadini nella raccolta dell’umido, grazie a una migliore etichettatura».

Per il futuro che cosa auspica?

«Una maggiore semplificazione, perché le persone fanno ancora troppa fatica a capire cosa si butta dove. E più coscienza sul valore del compost, che in una certa misura potrebbe essere ridato ai cittadini per la cura dei loro giardini. Alcune comunità hanno già fatto attività di questo tipo con un grande riscontro da parte dei cittadini».