Sono passati 60 anni dal disastro del Vajont del 9 ottobre 1963, costato la vita a 2mila persone, ma uno scenario del genere potrebbe accadere di nuovo. Ne sono convinti esperti come il geologo Mario Tozzi, che ha aderito a un progetto, chiamato VajontS 23, voluto dal regista Marco Paolini, lo stesso che nel 2001 firmò la pellicola Vajont.

Marco Paolini torna dopo la diretta del 1997 Racconto del Vajont

All’epoca fece discutere, perché per la prima volta si sollevò il velo di silenzi che aveva coperto la tragedia. Paolini spiega che oggi del Vajont si sa molto di più e che è ora «di riflettere sugli errori più che sulle colpe e di ragionare sulla complessità delle storie di tutto il nostro Paese». Ma soprattutto che non si può più parlare solo di “natura maligna”.

Non esiste la “natura maligna”

«Sono d’accordo. Tragedie del genere si sono verificate diverse volte nel nostro Paese, anche se non tutte con le stesse modalità e non necessariamente in presenza di nuove opere, come nel caso della diga sul fiume Vajont. In ogni caso, però, si era in presenza di interventi e costruzioni, inurbamento, abitazioni sorte dove non avrebbero dovuto sorgere», ci dice il geologo Mario Tozzi. Il pensiero corre anche ai giorni di apprensione che si stanno vivendo ai Campi Flegrei, dove si sono registrati diversi terremoti e si invoca un piano di evacuazione della popolazione che vive in zona, in caso di eruzione del Vesuvio o comunque di necessità. Se i cambiamenti climatici possono aver aumentato la frequenza degli eventi atmosferici intensi, certamente il problema resta la maggior urbanizzazione rispetto al passato. «Oggi occorre maggiore attenzione ai problemi legati alla geologia, che si tratti di rischio frane, alluvioni, terremoti o, appunto, il bradisismo dei Campi Flegrei. I rischi non si possono annullare, ma mitigare. Certo, è difficile agire in aree densamente popolate o dove negli anni si sono costruiti edifici, capannoni industriali, centro commerciali o urbani. A parità di intensità e frequenza di fenomeni atmosferici, come pioggia, o anche di magnitudo di un terremoto, crescono anche pericolosità e rischi», osserva Monica Ghirotti, professoressa ordinaria di Geologia applicata all’Università di Ferrara.

Gli allarmi inascoltati di ieri e di oggi

Proprio Ghirotti è stata allieva di Edoardo Semenza, il geologo figlio dell’ingegner Semenza (progettista della diga del Vajont), che “predisse” la frana con tre anni di anticipo, rimanendo inascoltato. Lei stessa, dopo il dottorato di ricerca sulla tragedia di Longarone, in occasione del 50esimo anniversario del disastro ha curato una mostra delle foto del «grande geologo italiano, il cui ruolo è stato riconosciuto a metà degli anni ’80. Nell’estate del 1960, infatti, era stato incaricato dal padre di studiare l’area e ne aveva sottolineato la pericolosità, insieme al collega Franco Giudici. All’epoca spiegarono che un’antica massa di una precedente frana, pari a 200 milioni di metri cubi di rocce, era presente sul versante settentrionale del monte Toc e che avrebbe potuto muoversi nuovamente con la creazione della diga e del lago. Oggi noi definiremmo il loro lavoro come uno scenario di rischio, rimasto inascoltato, dal momento che nonsolo entrambi furono sollevati dall’incarico, ma la storia poi si è avverata» spiega la geologa. Oggi la mostra delle foto di Semenza e il suo lavoro rimangono di grande valore: «Dopo averla portata nelle università e musei d’Italia, sarà ripresentata in occasione del Congresso mondiale dei geologi, in programma a novembre a Firenze. Non dimentichiamo che la frana del Vajont è una delle più complesse e studiate al mondo, e tra le più presenti nella letteratura internazionale», sottolinea Ghirotti.

VajontS 23: uno spettacolo per ricordare

Ricordare il Vajont, dunque, non è solo pensare al passato. «Quando pensai di raccontare la storia del Vajont ero giovane e volevo restituire giustizia a chi non l’aveva avuta e anche mettermi alla prova, perché anch’io avevo memorizzato quella storia come un disastro naturale. Volevo raccontare l’ingiustizia. Dire i nomi dei colpevoli. Trent’anni dopo del Vajont sappiamo molto di più. Giustizia è stata fatta, memoria è stata ricostruita. Ma Vajont è anche una catena di errori», spiega oggi Paolini. Con VajontS 23, quindi, si va oltre il film e le normali rappresentazioni sul palco. Si tratta di uno spettacolo, riscritto dallo stesso Paolini con la collaborazione di Marco Martinelli, che diventa «un’azione corale di teatro civile. È il più grande evento di teatro diffuso mai realizzato in Italia – spiega il regista – per parlare questa volta non di memoria e di responsabilità, ma di futuro».

Il rischio che accada un nuovo Vajont

Non a caso si è scelto il titolo di VajontS: «La storia del Vajont non è solo memoria di una immane catastrofe di 6 minuti, ma di una lunga serie di negligenze, inerzie, rischi mal calcolati o scartati perché inconcepibili, non perché impossibili. I segni della crisi climatica sono urgenti e gravi, non possiamo non imparare la lezione e ripetere gli stessi errori: questo il senso dei Vajont oggi. Per questo un Vajont con la S al plurale, perché le situazioni di fragilità dell’Italia, fragilità idrogeologica e le nuove situazioni di siccità a cui la crisi climatica ci espongono, richiedono anche al teatro, all’arte in generale, di occupare un ruolo civile di colla sociale tra i cittadini», sollecita Paolini. Da qui l’idea di uno spettacolo, portato in oltre 130 teatri in Italia e nel mondo, che coinvolge duemila persone nei cori, migliaia in ascolto nei modi più diversi: «Tanti racconti non solo per ricordare quel che è accaduto, ma per richiamare l’attenzione su quel che potrebbe accadere», aggiunge il regista.

La lezione di Longarone: cosa dobbiamo imparare

La tragedia di Longarone, il paese colpito dall’ondata di acqua e fango dopo il crollo della diga sul fiume Vajont, «ci ha insegnato che le catastrofi naturali non esistono. Esistono gli eventi naturali che diventano catastrofici per colpa nostra», commenta il geologo Mario Tozzi, che ha deciso di partecipare alla rappresentazione, con una lezione-spettacolo, al Teatro Carcano di Milano, il 9 ottobre, giorno dell’anniversario dell’incidente del 1963. «Se gli uomini non avessero deciso di inseguire il sogno di un manufatto perfetto che fosse il più grande del mondo, non ci sarebbe stato quel disastro», conferma il geologo. concorda Ghirotti: «Il Vajont è stato per prima cosa una tragedia causata dall’uomo, perché senza lago e diga non ci sarebbe stata la frana, come enunciato dal giudice Fabbri (nel processo sulle responsabilità del disastro, NdR), che ha riconosciuto la prevedibilità dell’evento. Purtroppo va anche sottolineato che, nonostante qui siano venuti esperti da tutto il mondo a studiare quanto accaduto, non c’è mai stato alcun finanziamento pubblico per una ricerca scientifica italiana su un evento avvenuto a casa nostra e nonostante abbiamo le competenze geologiche per farlo, visto che siamo tra i migliori al mondo dopo americani e cinesi».

La crisi climatica aumenta i pericoli

I geologi, inoltre, concordano con Paolini quando sottolinea l’urgenza di azioni forti, di fronte ai cambiamenti climatici: «Purtroppo è così. I cambiamenti climatici che si stanno registrando hanno creato ex novo alcuni rischi e ne hanno amplificati di vecchi», commenta Tozzi. L’unica strada possibile per evitarne l’impatto è la prevenzione, che passa sicuramente dalla comunicazione del rischio – spiega Ghirotti – Il che significa informare e preparare la popolazione su come comportarsi in caso di rischio, che sia un terremoto o un’alluvione o, come avviene nella nostra zona del ferrarese, un incidente chimico per la presenza di un’industria a ridosso del centro abitato». Ma eventi come l’alluvione in Emilia Romagna della scorsa primavera mostrano tutte le difficoltà nell’attuazione di piani di messa in sicurezza del territorio. «Fare prevenzione è possibile solo a patto di fare un passo indietro. Significa che bisogna lasciare i territori pericolosi, occorre togliere le strutture che si trovano in luoghi non idonei perché pensare di risolvere alcune criticità con nuove opere (contenitive, NdR) è impossibile – afferma Tozzi – Le opere non ci possono proteggere da tutto». «Il rischio zero non esiste, ma occorre più prevenzione anche nella progettazione», sottolinea Ghirotti.

Lasciare le zone pericolose e progettare meglio

Prevenzione ed educazione, quindi, sono armi indispensabili per evitare nuove tragedie. «Prove di evacuazione in caso di terremoti sono indispensabili nelle aree sismiche, ma occorre anche mettere in atto le norme di messa in sicurezza personale. La cronaca, invece, ci dice che in occasione dell’alluvione nelle Marche dello scorso anno gli alunni delle scuole invece che essere messi al riparo ai piani alti degli istituti siano stati portati in strada. Questo non è accettabile, perché i danni materiali hanno un costo, ma si possono riparare, quelli umani, in termini di vite perse o in pericolo, no. Occorrono monitoraggi, quindi, come ai Campi Flegrei, ma anche esperti in grado di studiare i rischi invece posso confermare che mancano geologi, nonostante il mercato del lavoro ne richieda», spiega Ghirotti

Serve una «prevenzione civile»

Con il suo spettacolo, Paolini punta ora a dare «Un ruolo pre politico al teatro, rispetto al quale però la politica oggi non è in grado di rispondere perché divisiva. Dunque abbiamo bisogno di ricostruire questo tessuto e storie come quella del Vajont ci aiutano a rimettere insieme le persone. “Catarsi” per i greci era il sinonimo della funzione della tragedia, ma nel dialetto bellunese “catarsi” significa “trovarsi”: mi viene il dubbio che forse i greci volessero dire la stessa cosa e che forse il teatro oggi serva soprattutto a “ri-trovarsi”, insieme, meno soli». Al progetto aderiscono 223 gruppi “affettivi”: famiglie, coppie, gruppi di amici; 118 letture “di comunità”: colleghi, gruppi di lettura, parrocchie; 94 scuole: insegnanti che hanno deciso di organizzare letture con i loro studenti; 50 gruppi di teatro amatoriale, o enti, comuni, aziende che stanno organizzando una lettura pubblica», spiega Paolini. Ogni cittadino, però, potrebbe dare il suo contributo di “prevenzione civile”: «Come ho detto servono azioni dell’uomo, ma in senso protettivo. Per farlo, però, occorre anche una cultura ambientale che oggi scarseggia», conclude il geologo Mario Tozzi.