Come possiamo contribuire oggi alla sostenibilità del nostro pianeta? È l’interrogativo cardine di Fragile Festival, dall’11 al 13 ottobre a Parma. La manifestazione culturale, organizzata da Santeria S.p.a., che attraverso talk, workshop, show cooking e clean up mira a stimolare il confronto fra cittadini, imprenditori e istituzioni per rendere concreto un futuro più sostenibile.
Alimentazione, tecnologia, economia e finanza sono tra le tematiche del festival. Futuro e innovazione le lenti d’ingrandimento attraverso cui gli ospiti provenienti da arti e discipline molto diverse, cercheranno di trovare soluzioni pratiche a questioni globali e sfide quotidiane. Al Fragile Festival di Parma partecipano anche Giulia Innocenzi, giornalista e regista di Food for Profit, e Matteo Ward, autore, CEO e co-fondatore di Wrad, agenzia creativa e di consulenza che affianca aziende di moda che vogliano intraprendere un cammino più sostenibile. Li abbiamo incontrati e abbiamo parlato delle principali sfide che Food e Fashion dovranno affrontare per essere più sostenibili.
Giulia Innocenzi, il caso Food for Profit
Con Food for profit, documentario d’inchiesta realizzato da Giulia Innocenzi e Pablo D’Ambrosi, la giornalista ha analizzato il rapporto tra allevamenti intensivi, politica e lobby. Ma il lavoro di Giulia Innocenzi continua: si sta occupando delle condizioni sanitarie allarmanti nelle zone di restrizione per la peste suina, come vedremo su Report, a giorni su Rai3.
Food for Profit è stato l’unico documentario in corsa per gli Oscar, nella categoria “Film Internazionali”. La scelta è ricaduta su Vermiglio di Maura Delpero, ma il fatto che un documentario d’inchiesta concorresse dimostra che questa tipologia di film può funzionare. È un modello per il futuro?
«Sì, lo spero perché le inchieste costano soldi, quindi si tende a non farle anche solo per motivi produttivi. Si pensa che le persone non abbiano voglia di vedere questo tipo di film, che vengano considerati pesanti per chi vorrebbe svagarsi. Io penso che questo non sia assolutamente vero. Spero che anche grazie a Food for Profit si possa allargare lo spazio delle inchieste, anche usando lo strumento del documentario, perché sono fondamentali in una democrazia».
La maggior soddisfazione ottenuta da questo lavoro?
«Le persone mi dicono che non sapevano nulla del tema e che hanno rivisto le loro abitudini alimentari. Per me è la soddisfazione più grande: significa che riesci a incidere sulla vita delle persone e questo è il bello di chi fa il nostro lavoro: segnare un cambiamento nel concreto. Questo per me vale tantissimo perché purtroppo la realtà degli allevamenti intensivi è ancora oggi sconosciuta a tanti. E con il mio lavoro cerco di aprire le porte di quei capannoni oggi chiusi».
Gli ostacoli sul cammino quando parliamo di carne
Quali sono gli ostacoli principali che vede sul cammino verso una produzione di carne più sostenibile?
«La politica continua ad aiutare l’industria zootecnica: questo è l’ostacolo principale. Perché in realtà le aziende si stanno adattando e cercano di rispondere all’esigenza dei consumatori, che è di orientarsi sempre più verso le proteine vegetali. Sono usciti i primi report che dimostrano come oggi in Italia sia in corso una riduzione del consumo di carne. In realtà, i soldi pubblici sono uno dei motivi per cui questa industria sta in piedi, altrimenti avremmo molti meno allevamenti e molta meno produzione di carne. Tra l’altro il prezzo basso è uno degli elementi che incentiva il consumo di proteine animali, menter il costo reale è molto superiore».
Poi deduco ci sia un problema trasparenza legato all’origine della carne che acquistiamo e alcuni falsi miti legati alla dieta mediterranea, che ricordiamo è un’alimentazione basata sul consumo di vegetali, creali e legumi. È così?
«La mancanza di trasparenza è una condizione voluta proprio perché oltre il 90% dei prodotti di carne che consumiamo vengono dagli allevamenti intensivi. Chi li produce non ha nessun interesse per il consumatore, per questo nell’etichetta non c’è nessun tipo di informazione sul metodo di allevamento. Invece, per quanto riguarda la dieta mediterranea, solo il 10% degli italiani la segue. La maggior parte, invece, consuma troppa carne, anche perché ne mangiamo il triplo dei nostri nonni».
Giulia Innocenzi al Fragile Festival di Parma
L’11 ottobre è al Fragile Festival di Parma, che cosa può dirci a riguardo?
«Sono sempre contenta di andare a parlare di questi temi, che sono spesso tabù. Invece, con questo festival cercheremo di affrontarli perché le persone hanno sempre più voglia di sapere cosa c’è dietro il loro piatto. E io penso che i consumatori possano vedere più lontano della politica».
Mi sembra ottimista.
«Sì lo sono, perché vedo il cambiamento tutti i giorni: ci sono persone che mi contattano quotidianamente. Però ci vorrà del tempo».
Fragile Festival di Parma: dialogo con Matteo Ward
Si definisce un “pentito di moda”, perché dopo aver lavorato per molti anni nell’industria della moda, si è accorto dell’impatto ambientale e sociale che produrre vestiti aveva. Così, Matteo Ward ha iniziato a lavorare per cambiare le cose. Dapprima, l’ha fatto attraverso un lavoro di formazione e divulgazione in giro per l’Europa e nelle scuole, per spiegare il costo reale dei nostri vestiti. Poi, ha fondato un’agenzia di consulenza di comunicazione e design. Tuttora si occupa di divulgazione rispetto all’impatto ambientale e sociale dell’industria della moda. E l’11 ottobre sarà al Fragile Festival di Parma.
Ci parli della sua agenzia Wrad.
«Nel 2018 inizia il nostro lavoro come agenzia di consulenza di comunicazione e design a partire proprio dalla consapevolezza che una tecnologia da sola non serve a nulla se non racconti qual è il valore che questa può dare. Per cui, abbiamo iniziato a costruire dei progetti che davano la possibilità a terzi di diventare nostri partner nel recupero e nello smaltimento di grafite attraverso i vestiti e nell’attivazione di progetti sociali. E così, a poco a poco abbiamo costruito un po’ un unicum nel mondo della consulenza del design: Wrad, che oggi si struttura in tre linee specifiche: formazione, innovazione e design di prodotto e di comunicazione».
Wrad è un acronimo o ha un significato?
«Vivevo ad Amburgo, era il 2012 o il 2013. Comunque in quegli anni, in Nord Europa, iniziavo a vedere i primi concept della cosiddetta moda responsabile. E il mio primo feedback all’azienda per cui lavoravo fu che il risultato di questi esperimenti di sostenibilità era molto raw, che in inglese significa crudo, verace, ma poco rad, abbreviativo radical, che è anche uno strano modo di dire figo. Ancora non c’era nulla di attrattivo in tutto quello che vedevo. Per cui mi promisi che se mai avessi fatto altro, avrei creato qualcosa di naturale e onesto, ma allo stesso tempo radicalmente unico e l’avrei chiamato Wrad. Solo dopo mi sono accorto che era anche l’anagramma del mio cognome…».
Matteo Ward, Junk: Armadi Pieni
Nel 2023 è uscito anche il suo documentario, Junk: Armadi Pieni. È andato in giro per il mondo per raccontare l’impatto ambientale e sociale dell’iperproduzione e del sovraconsumo di abbigliamento e calzature. Come è nato questo progetto?
«Nel 2020 ho iniziato a utilizzare di più i canali digitali per raccontare in modo un po’ più pop i miei cinque anni di percorso precedenti. Nel 2022 però, mi sono accorto che in Italia ancora non esisteva un progetto editoriale che con un linguaggio accessibile e facilmente fruibile da tutti, in lingua italiana, parlasse di sostenibilità legata all’industria della moda. Quasi tutta la documentaristica e la letteratura erano in inglese, ma non è scontato che tutti lo parlino. Faccio questa lamentela su Instagram e mi contatta un amico, Alessandro Tommasi, che è il fondatore e l’ex amministratore delegato di Will Media. Mi chiede se avessi qualcosa in mente. Era agosto 2022, in pochi giorni gli mando le mie idee e a ottobre ero su un aereo per il Cile».
Sostenibilità e action gap
È vero che sono i giovani i più sensibili alle tematiche di sostenibilità? Personalmente credo che sia così, ma che si tratti comunque di una nicchia di persone.
«Allora, è così. Quando si parla di sostenibilità esiste un considerevole action gap, che è la differenza tra azione e intenzione. Se chiedi a un campione di migliori ragazzi se vogliono uccidere il pianeta con l’acquisto di magliette, ti diranno tutti di no. Ma poi subentrano fattori economici, culturali, di accessibilità e dipendenza dal consumo di fast fashion. Di conseguenza non si riesce a smettere di consumare, pur sapendo che è controproducente. I meccanismi che portano a compiere dei gesti irrazionali, anche contro i nostri stessi interessi, hanno a che fare con le neuroscienze, con la psicologia, ed è lì che bisogna guardare per spiegare il perché, nonostante così tanti giovani siano sensibili alla tematica ambientale, poi continuino ad acquistare da certi brand».
Food e Fashion a confronto: l’industria della moda come archetipo
Sia nel caso del consumo di carne che in quello di vestiti, ci sono dei costi invisibili che il consumatore non conosce e a cui non pensa.
«Mangiamo tanta carne senza dare peso e valore a quello che consumiamo. Non ci rendiamo conto delle conseguenze perché abbiamo un distacco emotivo grandissimo rispetto alla fonte di questo alimento. A tal punto che non ci chiediamo come possa costare così poco o se ha senso consumarne così tanto.
Stessa cosa per l’abbigliamento. Negli ultimi vent’anni non abbiamo avuto gli allevamenti intensivi, ma abbiamo avuto produzioni sempre più intensive che hanno portato a conseguenze strettamente interconnesse al costo ambientale e sociale dei nostri vestiti. Le dinamiche sono molto simili, probabilmente la moda è l’archetipo: il modello per costruire filiere globali che fanno dello sfruttamento sociale e ambientale le regole per riuscire a diventare un’industria profittevole dal punto di vista economico».
Come si rendono le persone più consapevoli rispetto ai loro consumi?
«Come facciamo dopo vent’anni in cui ci siamo disabituati a riconoscere valore in quello che indossiamo, a ritrovarlo? Una chiave di lettura può essere quella di provare a guardarlo con gli stessi occhi con cui guardiamo al cibo, all’acqua. È vero che abbiamo ancora tanto da imparare anche nelle nostre abitudini alimentari, ma è anche vero che in questo campo la cultura è un po’ più sofisticata rispetto a quella che abbiamo in ambito tessile.
Da quando siamo bambini, quasi tutti ci siamo sentiti dire almeno una volta di non sprecare il cibo, perché altri ne hanno bisogno. Fin da piccoli impariamo il valore di quello che abbiamo nel piatto o dell’acqua. Non succede lo stesso con una maglietta o un paio di jeans, nonostante siano fatti con gli stessi ingredienti – acqua, terra e energia – e interagiscano con il nostro corpo. La pelle assorbe quello con cui la mettiamo a contatto, proprio come il cibo».
Matteo Ward: l’insostenibilità della moda inizia con Luigi XIV
Il 10 settembre 2024 è uscito il suo libro, Fuorimoda!, perché questo titolo?
«Nel 1678, un uomo ha deciso che quello che era nel nostro guardaroba doveva essere mandato fuori moda. Era il re di Francia, Luigi XIV. È l’inventore delle due stagioni, primavera/estate e autunno/inverno: è stato il primo passo per indurci al sovraconsumo di abiti. Il titolo nasce da qui e poi è la metafora di un grido che dovremmo imparare a usare più spesso: dichiarare le ingiustizie fuori moda, tutto quello che non funziona fuori moda. Tanti problemi esistono nel mondo perché forse abbiamo perso il coraggio e la voglia di alzare la voce per dichiarare fuori moda ciò che non va. Infatti, nella prima parte del libro ho voluto aiutare le persone ad evidenziare le origini dell’insostenibilità della moda, anche con un filtro storico. Non possiamo cambiare ciò che non vediamo: proviamo a vedere quello che non funziona e poi capiamo come e rispetto a cosa dobbiamo alzare la voce».
Fragile Festiva di Parma: gli ostacoli nel cammino della moda
Quali sono secondo lei gli ostacoli principali che impediscono una maggiore sostenibilità della moda?
«Il primo, che ha tutto a che fare con la moda ma non solo, è superare il modello di business. Il segreto del successo di questa industria si basa sulla sovrapproduzione e sul sovraconsumo di vestiti. Questo è insostenibile ed è il perno centrale anche del sistema economico contemporaneo. Fintanto che non cambia questo, la moda non potrà mai essere sostenibile. Il secondo è la risoluzione delle crisi sociali. Finché ci saranno persone che percepiscono stipendi al di sotto della sala di dignità, sarà inattuabile qualsiasi transizione ecologica.
Questo è uno dei modi più semplici per spiegare questo punto. In Bangladesh ho visitato delle fabbriche tessili che in pratica hanno tutti gli strumenti per filtrare l’acqua ed evitare di scaricare tinture tossiche nei campi circostanti. Però non hanno i soldi per accendere i filtri perché i grandi della moda vogliono pagare poco per fare i vestiti. Di conseguenza i campi circostanti sono completamente inquinati, coperti da una coltre d’acqua nera tossica che ha distrutto tutto. Questo è l’esempio di come l’ingiustizia sociale renda la transizione ecologica impossibile. Poi dovremmo smetterla con questa smania di superare costantemente la natura».
È ottimista?
«Nel mondo tessile sinceramente c’è ancora tanta confusione. Non vedo un movimento così partecipato per chiedere una transizione ecologica e la riduzione dell’utilizzo, per l’esempio, delle fibre sintetiche. Sono ottimista nella possibilità di poter cambiare questo, ma sono consapevole. Ho paura del futuro e questo mi permette di trovare la forza e il coraggio di provare a cambiare la situazione. Penso che le narrazioni iper ottimistiche quando si parla di sostenibilità siano controproducenti: perché se ci fermiamo a pensare che il poliestere riciclato possa salvare il mondo o che investire nel riciclo tessile sia la soluzione a tutti i nostri mali, allora perderemo un sacco di tempo e soldi e fra 15 anni saremo messi peggio di ora».