Dietro il fascino di molte leggende c’è spesso un’origine storicamente vera (o verosimile), da cui i nostri antenati erano soliti partire per spiegare avvenimenti diversi, fenomeni naturali e geologici che sfuggivano al loro controllo.
E proprio con l’intento di cercare di “spiegare l’inspiegabile ”, gli uomini arricchivano le loro storie di dettagli irreali, trasformandole, appunto, in leggende. Sospese tra realtà e fantasia, alcune leggende del passato sono così affascinanti e misteriose da essere ancora oggi oggetto di indagine.
Dal mito di Atlantide ai troll, passando per l’Arca di Noè e il Diluvio Universale, vi raccontiamo alcune delle leggende più famose del mondo e, dove possibile, anche le più probabili spiegazioni scientifiche che stanno alla loro origine.
L’Arca di Noè e il Diluvio Universale
Prima di mandare per quaranta giorni e quaranta notti una tempesta a ricoprire ogni superficie emersa del globo terrestre, Dio ordinò a Noè e alla sua famiglia di costruire una grande arca. E così fece Noè: realizzò una nave a tre piani, dentro fece delle stanze per sé e per i suoi familiari, per gli animali e per il cibo necessario alla sopravvivenza di tutti i passeggeri. Poi Dio comandò a Noè di rivestire l’arca in modo che non vi penetrasse acqua perché, come si legge nella Bibbia, gli disse: «Manderò un grande diluvio sulla Terra e distruggerò il mondo intero. Chiunque non sarà nell’arca morirà». Nessuno credeva a Noè, ma quando Dio fece quel che aveva promesso, morirono tutti, tranne Noè, la sua famiglia e gli esemplari di animali, un maschio e una femmina, che furono imbarcati. Cessato il diluvio, il mondo si ripopolò dal nucleo di sopravvissuti. All’origine del mito sull’Arca di Noè e il Diluvio Universale ci sono sicuramente le alluvioni localizzate in particolari regioni del mondo che per settimane sconvolsero varie parti della terra. Tra le ipotesi più accreditate c’è quella che l’episodio biblico si ispiri a una catastrofica alluvione che interessò l’area dell’attuale Mar Nero intorno al 5000 a.C. La leggenda potrebbe anche essere servita a spiegare il ritrovamento di fossili di pesci in cima a rilievi montuosi (un fatto spiegato oggi dalla teoria della tettonica delle placche terrestri).
Una catena di rocce collega l’India con lo Sri Lanka, secondo i geologi. Ma per gli Indù si tratta dei resti del Ponte di Rama che, come narra il poema epico Ramayana, fu costruito per permettere al dio Rama di raggiungere la moglie Sita, tenuta prigioniera nell’isola di Lanka, nel Regno dei Demoni. Con l’aiuto dei Vanara, un potente popolo di uomini scimmie, Rama e il fratello costruirono un ponte sostenuto da rocce sabbiose che in seguito gli dei avrebbero ancorato al fondo marino, dando origine all’attuale catena, e liberarono Sita dalla prigionia del re demone Ravana, che dominava l’isola. Tra realtà e fantasia, le foto satellitari fornite dalla Nasa hanno rivelato che una striscia di pietre calcaree lunga ventinove chilometri, , sia stato sommerso dall’innalzamento del livello dei mari durante l’ultima era glaciale. È possibile che fino a 4500 anni fa questa specie di ponte naturale fosse attraversabile a piedi.
Raccontano gli abitanti delle Isole Salomone, nel Sud del Pacifico, che un giovane di nome Rapuanate si fosse innamorato di una donna dell’Isola di Teonimanu, che gli fu sottratta dal fratello. Per vendicarsi Rapuanate ricorse a un sortilegio e fece sprofondare la terra dell’amata in mare. Pare che l’isola di Teonimanu sia esistita davvero, ma finì sommersa dall’acqua durante un evento sismico che ne avrebbe causato lo scivolamento nella Fossa delle Filippine, una fossa oceanica situata nell’oceano Pacifico settentrionale. Ciò che rimane dell’isola è un bassofondo oggi noto come Lark Shoal, situato nella parte orientale dell’arcipelago. Mappe sottomarine hanno rivelato la presenza di diverse isole sommerse sotto centinaia di metri d’acqua in questa regione.
Quando i primi europei arrivarono nel nordovest degli Stati Uniti, sulla costa pacifica, scoprirono che i nativi americani non si avvicinavano al Crater Lake, un lago vulcanico situato nella caldera del Monte Mazama, in Oregon, perché credevano che qui si fosse tenuta una sanguinosa lotta tra Llao, il dio degli inferi e il rivale Skell, dio del cielo. I due si sarebbero lanciati rocce e fiamme finché il vulcano non collassò trascinando Llao sottoterra. La pioggia che cadde in seguito formò l’attuale lago. Basi scientifiche sono state ritrovate in questo mito che descrive piuttosto fedelmente – lotte divine a parte – ciò che accadde nella realtà 7700 anni fa: una imponente eruzione vulcanica, il collasso della caldera e la pioggia che riempì il bacino di acqua. La leggenda, tuttavia sopravvisse migliaia di anni per tradizione orale.
Non è facile incontrare un troll eppure molte leggende raccontano di questi esseri, non proprio affascinanti, che vivono nelle gelide terre del Grande Nord. La più grande famiglia di troll vive tra le montagne e le zone boscose della Norvegia, dove la luce è molto intensa solo nel periodo che va da maggio a luglio. I troll, infatti, temono la luce, che mette in pericolo la loro vita. Una volta entrati in contatto con un raggio di sole si trasformano immediatamente in roccia. E molte leggende norvegesi sostengono che la somiglianza di alcune grandi montagne con la forma tipica di un troll dipenda proprio dal fatto che esemplari di troll non siano riusciti a rientrare in casa prima del sorgere del sole. Dei Troll si sa che sono di svariate misure e non sono di bell’aspetto, che hanno un naso molto grosso e lungo, cinque dita sia alle mani sia ai piedi e una pelle ricoperta totalmente di piccole squame. I Troll, inoltre, sono degli avidi accumulatori di tesori, sono molto ricchi e amano vivere nel lusso. I Troll non riescono a resistere al fascino delle femmine umane, che prima rapiscono e poi sposano con l’inganno. Ma se la giovane inizia a dare problemi, la trasformano nel piatto principale del loro banchetto. La vita di un troll si aggira intorno ai 150-200 anni.
Strane creature e giganteschi mostri marini popolano da sempre i racconti di marinai e pescatori. Che fosse frutto di fantasia o un fatto reale, quella del calamaro gigante è una leggenda che occupa un posto di primo piano tra le tante che riguardano il mondo degli abissi. Un essere con un immane corpo cilindrico, enormi occhi rotondi, otto braccia serpentine e due lunghissimi tentacoli. Così è stato descritto in letteratura e ritratto, per lo più, nell’atto di aggredire barche da pesca o mentre lotta con le balene. Aristotele e Plinio ne scrissero, eppure il calamaro gigante fu ritenuto un mostro marino mitico sin verso la fine dell’800, quando a Terranova se ne videro ben una dozzina arenata a riva. Fu nel 1873 che il calamaro gigante fornì prova della sua esistenza e pericolosità. Due esperti pescatori e il figlio dodicenne di uno di loro raggiunsero a remi la Conception Bay quando poco distanti dalla riva notarono qualcosa di strano. Sembrava solo un ammasso di alghe e quindi avanzarono senza particolari indugi. Avvicinandosi, compresero che si stavano sbagliando. Una massa liscia, color rosso-violacea si palesò davanti a loro. Uno dei due la colpì e allora otto lunghe e grosse braccia munite di ventose, al cui centro apparivano degli occhi grandi, e un paio di tentacoli saettarono dall’acqua ribollente verso la barca. In pochi secondi il gigantesco calamaro avviluppò la barca. I poveri pescatori presero a colpire il mostro marino, ma fu ragazzo Tom Piccot con un’ascia a tagliare il tentacolo. Il mostro allora si allontanò, rapido, lasciandosi dietro nuvole d’inchiostro. I pescatori tornarono in fretta a riva, con il tentacolo amputati ancora stretti alla barca, prova inconfutabile del pericoloso incontro ravvicinato con il calamaro gigante.
La leggenda di Merla e Tibaldo è forse la più romantica e insieme triste che ruota attorno agli ultimi, rigidissimi tre giorni del mese di gennaio. Viveva nel ‘500, nella Rocca di Stradella, in provincia di Pavia, una nobile famiglia di gastaldi di nome Merli. Tibaldo, un giovane della famiglia, fu inviato a Pavia a studiare. Terminati gli studi, il giovane tornò a casa. Qui incontrò una giovanissima ragazza di nome Merla e se ne innamorò. Merla era così bella che in tutto il contado si diceva: «Bella come la Merla». La ragazza ricambiò il sentimento di Tibaldo, ma un grosso ostacolo separava i due innamorati: il grado di parentela. Merla e Tibaldo, infatti, erano cugini stretti. Per un po’ i due innamorati riuscirono a tenere segreta la loro relazione, ma alla fine dovettero rendere pubblico il loro amore senza speranza. Sembrava, ai due giovani innamorati, che non ci fosse altra soluzione che un romantico suicidio. Ma il loro sentimento prevalse su tutto, al punto che anche il vescovo di Pavia, parente dei due giovani, si mosse a commozione e riuscì ad ottenere una dispensa papale che consentisse loro di sposarsi. Le nozze furono celebrate in pompa magna e i festeggiamenti si protrassero per tre giorni: gli ultimi, tre gelidi giorni del mese di gennaio. Tutto il paese partecipò al festoso evento, che però finì in tragedia. Per raggiungere Pavia, i due sposi attraversarono il Po gelato a bordo della loro carrozza. Durante il viaggio, la superficie gelata del fiume si ruppe e i due giovani sposi finirono tragicamente annegati.
Secondo la leggenda il turbolento vulcano hawaiano Kilauea sarebbe la dimora della dea del fuoco Pele. Questa divinità per vendicarsi della sorella rivale in amore, avrebbe incendiato un’intera foresta e scaraventato l’amato conteso all’interno del cratere. La sorella, disperata, prese a scavare nel vulcano, lanciando in aria lapilli, finché non ritrovò l’uomo e si ricongiunse a lui. Una leggenda, ancora una volta, che deriva da una colossale eruzione, la cui durata raggiunse i sessanta anni, avvenuta nel XV esimo secolo e che interessò un’area di 430 km quadrati di foresta nell’isola grande di Hawaii. L’ossessivo scavare della sorella di Pele rappresenterebbe invece la successiva formazione della caldera del Kilauea.
Il mostro mitologico sputa fuoco descritto nell’Iliade, una creatura con la testa di leone e la coda di serpente, capace di avvelenare con la sua coda, avrebbe a lungo terrorizzato, spargendo fiamme e distruzione, le coste dell’attuale Turchia. Almeno finché il greco Bellerofonte non riuscì a sconfiggerla, ritorcendo la sua stessa forza contro di esso. Nel sudovest della Turchia è ancora possibile ammirare il sito di Yanartas, caratterizzato da decine di fuochi perpetui alimentati dal metano che fuoriesce dalle rocce. Queste fiamme servivano probabilmente da punto di riferimento ai naviganti, che le intravedevano dalle coste, e potrebbero aver contribuito alla nascita del mito.