Lo smart working oggi non è più un diritto acquisito. Con la fine dell’emergenza Covid, le aziende oggi possono decidere di revocare la possibilità di lavorare da remoto, proprio come accaduto con Amazon. Il CEO del colosso, Andy Jassy, ha infatti comunicato che dal 2 gennaio 2025 tutti i dipendenti della società dovranno tornare in ufficio cinque giorni alla settimana. Ma come funziona oggi in Italia?

Il ritorno alla “vecchia” scrivania

Dopo il boom legato alla pandemia, quando lavorare da casa era diventato un’esigenza e l’unico modo per non fermare le attività, oggi si assiste a un ritorno alle modalità tradizionali: scrivania, ufficio e compresenza con i colleghi. Come ha spiegato Jassy, infatti, occorre tornare ad essere «più attrezzati per inventare, collaborare e offrire il meglio in assoluto ai clienti e all’azienda». «In sintesi, abbiamo osservato che è più facile per i nostri colleghi imparare, modellare, mettere in pratica e rafforzare la nostra cultura – ha sottolineato ancora il CEO di Amazon – Senza dimenticare che è più facile anche collaborare, fare brainstorming, inventare, insegnare e imparare gli uni dagli altri».

Stop al “diritto” allo smart working?

L’inversione di marcia di Amazon non arriva come una “doccia fredda”. Come spiegava il New York Times già lo scorso maggio, l’azienda aveva annunciato il ritorno agli orari pre-pandemia, scatenando uno sciopero nella sede di Seattle. Ma come funziona oggi in Italia? La possibilità di lavoro da remoto, che si è già ridotta anche nel nostro Paese, non è prevista dai contratti collettivi nazionali. Dove è presente, quindi, dipende da accordi tra il datore di lavoro e i propri dipendenti.

Cosa è cambiato nel 2024

L’ultima proroga allo smart working in Italia, infatti, è scaduta il 31 dicembre 2023, ma riguardava solo alcune categorie. Il lavoro da remoto era limitato ad alcune mansioni che potevano essere svolte in modalità da remoto, anche differenti rispetto a quelle previste inizialmente, purché rientrassero nella stessa categoria o area di inquadramento, senza variare la retribuzione. «Dal 1° aprile 2024, però, sono state uniformate le regole: si è deciso che l’accesso al lavoro agile non è più concesso in modo informale, ma dipende dall’incontro delle volontà del datore di lavoro e del lavoratore tramite un accordo individuale scritto. In altre parole, è possibile solo previa sottoscrizione di un’intesa individuale tra datore di lavoro e dipendente», spiega l’avvocato Celeste Collovati di Dirittissimo Studio Legale, che si occupa di diritto previdenziale, del lavoro e civile.

Bisogna negoziare con il datore di lavoro

Come è regolato, dunque, lo smart working in Italia? Non essendo previsto dai contratti collettivi nazionali, dipende da una contrattazione singola tra datore di lavoro e dipendenti. «Sia per il settore pubblico che per quello privato, quando si parla di “Smart Working” o lavoro agile, in Italia la disciplina di riferimento è la Legge 22 maggio 2017, n.81 (articoli 18-24) e successive modifiche – spiega l’esperta – Le ultime modifiche in ordine di tempo riguardano soprattutto i lavoratori fragili e i genitori di under 14 conviventi con i figli».

Che differenze tra pubblico e privato?

Le norme più recenti, come spiega ancora Collovati, hanno permesso di uniformare il settore privato e quello pubblico. «Per quanto riguarda i lavoratori della pubblica amministrazione, dal 1° gennaio 2024 i soggetti fragili possono richiedere lo smart working in caso di problemi di salute o di famiglia. Una volta presentata la richiesta, sono i dirigenti responsabili del loro ufficio a decidere se autorizzare o meno il lavoro agile, prevedendo accordi individuali, come disciplinati dalla Direttiva Ministeriale del Dicembre 2023».

Chi può chiedere ancora lo smart working?

Lo smart working, che durante la pandemia era diventato un’esigenza, è dunque progressivamente scomparso. Oggi di fatto è diventata un’eccezione anche se c’è qualche lavoratore che ha ancora “diritto” a chiederlo: «Esatto, può essere concesso e di fatto in genere avviene solo in situazioni di gravi problemi di salute, personali o familiari, a discrezione dei dirigenti della Pubblica Amministrazione e con specifici accordi individuali», chiarisce l’avvocato Collovati.

Qual è l’iter per lavorare da remoto

Chi si trovasse in una condizione tale da avere i requisiti per la richiesta può presentare domanda: «Tutte le comunicazioni di attivazione devono essere inviate in via telematica (all’INPS) seguendo il canale ordinario, pena la sanzione per il datore di lavoro. Devono essere specificati la durata del regime di smart working e i dettagli come, per esempio, l’elenco degli strumenti di lavoro usati, i tempi di riposo e le forme di controllo. Per il datore non in regola ci possono essere sanzioni dai 100 ai 500 euro per ogni lavoratore coinvolto», spiega l’esperta di Dirittissimo Studio Legale.

Attenzione al preavviso previsto per legge

Il datore di lavoro, però, può comunque revocare il lavoro da remoto. «Il datore di lavoro di fatto decide la formula di accordo, che può essere a termine o a tempo indeterminato. In quest’ultimo caso il recesso può avvenire con un preavviso non inferiore a 30 giorni – chiarisce Collovati – Nei lavoratori disabili, il termine di preavviso del recesso da parte del datore di lavoro non può essere inferiore a 90 giorni, al fine di consentire un’adeguata riorganizzazione dei percorsi di lavoro rispetto alle esigenze di vita e di cura del lavoratore».

Anche il lavoratore può chiedere il recesso

«In ogni caso, in presenza di un giustificato motivo, ciascuna parte può recedere prima della scadenza del termine nel caso di accordo a tempo determinato, o senza preavviso nel caso di accordo a tempo indeterminato», dice Collovati.

Quali diritti per le donne?

«Nel caso delle lavoratrici madri, il datore non ha nessun obbligo, ma se concede lo smart working firmando accordi privati, deve dare la precedenza ad alcune categorie, tra cui le mamma con figli fino ai 12 anni di età o con figli con disabilità (senza limiti di età)», specifica l’avvocato, che aggiunge: «Restano ferme, comunque, tutte le tutele previste per donne, fragili e disabili, contenute nel Decreto Conciliazione vita-lavoro».

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