Parliamo dell’ansia dei ragazzi

Leggi il titolo di questo libro, Sii te stesso a modo mio, e pensi: è una bomba. Soprattutto se sei un genitore di figli adolescenti o preadolescenti, ti fa riflettere. Ti instilla quella paura di stare sbagliando qualcosa che a noi adulti è fin troppo familiare. Perché, come spiega bene l’autore Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Minotauro di Milano, noi “grandi” abbiamo un problema enorme. Siamo fragili. E il peso di questa insicurezza la pagano i nostri ragazzi che, invece di sentirsi guidati, accompagnati, protetti, sono sperduti, vanno in ansia.

Spostiamo l’attenzione sui genitori

Nel suo ultimo saggio, Lancini, più che un’analisi dei comportamenti dei nostri figli, fa una disamina rigorosa e a tratti – dobbiamo dirlo – sconfortante dei problemi di noi adulti. In cui, purtroppo, non possiamo non riconoscerci. Una presa di coscienza faticosa, ma sicuramente utile. «Oggi i genitori dovrebbero essere addestrati a un’alfabetizzazione emotiva, per comprendere il significato dei comportamenti adolescenziali, per dotarsi del coraggio e dell’autorevolezza necessari a decodificarli, senza che la loro fragilità li induca a mettere al centro se stessi, a far sparire l’altro, a tapparsi le orecchie per allontanare al più presto il dolore dei propri figli» spiega lo psicoterapeuta. Ed è proprio da quel malessere che vogliamo partire. Per riflettere su di noi, ma soprattutto per mettere finalmente al centro loro.

L’ansia dei ragazzi di oggi è diversa

La sofferenza dei ragazzi sembra essere in aumento. E cambiare forma. Lo riscontra anche nei suoi giovani pazienti?

«In questi ultimi anni le frasi che abbiamo sentito pronunciare più spesso riguardavano la paura del fallimento e l’assenza di prospettive. Un’espressione ricorrente era: “C’ho l’ansia”. Ma oggi la situazione è diversa». In che senso? «Accanto all’aumento dei tentativi di suicidio e di fenomeni come il self cutting e il ritiro sociale, non vediamo più l’ansia da prestazione, bensì un’ansia generalizzata, pervasiva, che spesso si trasforma in angoscia. Ci siamo resi conto che le richieste degli adolescenti non riguardano più solo la gestione del crollo dell’ideale infantile, ma la necessità di chiedersi: “Chi sono io?”, “Dove sto andando?”, “Che senso ha quello che sto facendo?”». Interrogativi che hanno sempre accompagnato l’adolescenza, ma che negli ultimi anni hanno assunto un significato più profondo».

Secondo lei, da cosa deriva questa nuova forma di ansia?

«È un malessere proprio di chi non si sente accolto, capito, e di chi non ha avuto modo di costruire la propria identità, impegnato a essere se stesso nei modi che gli imponevano la mamma, il papà, l’insegnante e la società. Un carico paradossale, questo, di cui i bambini e gli adolescenti sono stati investiti e che ha segnato il passaggio dalla famiglia narcisistica a quella che definisco postnarcisistica».

Dalla famiglia patriarcale a quella postnarcisistica

Ci può spiegare meglio questo cambiamento sociale?

«Fino a 60 anni fa i rapporti familiari erano declinati secondo la logica del “devi obbedire”. Negli anni ’70 si fa largo la famiglia narcisistica, affettiva e relazionale, dove tutte le energie sono impiegate nel favorire l’espressività, l’originalità e la felicità del bambino. Adesso, a causa dell’esasperazione del sé, si cresce all’interno di un contesto familiare attento, che fornisce le risorse necessarie alla realizzazione personale dei figli, ma che fatica a identificarsi con loro e a riconoscere il fatto che esistano bisogni specifici. È per questo che i ragazzi oggi si sentono spesso soli in mezzo agli altri: capiscono che le loro idee, i loro fallimenti, i loro sogni, le loro fragilità non possono essere raccontati perché non sarebbero capiti, accettati, ascoltati».

Però sembra un paradosso: rispetto al passato si dà molto più ascolto ai figli.

«Sicuramente l’ascolto è maggiore, ma ciò che conta davvero è la capacità di accogliere anche quello che non ci piace, di riuscire a capire quello che i figli hanno davvero da dirci. Una comprensione che, senza una reale identificazione, difficilmente viene raggiunta. Invece, sempre più spesso, i genitori, ma anche gli insegnanti, agiscono per dimostrare che stanno facendo bene e per essere in pace con loro stessi. Chiedono ai figli di non esprimere difficoltà e delusioni, perché questo li addolorerebbe e non li farebbe sentire adeguati. Ascoltano, ma senza sentire».

Perché siamo così fragili?

«La nostra debolezza dipende da tanti fattori: dalla perdita dei grandi valori, dall’incertezza costante in cui viviamo, da una realtà sempre più individualista e priva di punti di riferimento, da una società dell’affermazione di sé, del proprio pensiero e della propria immagine come quella a cui tutto il mondo deve corrispondere».

Cosa possiamo fare per alleviare l’ansia degli adolescenti?

Che cosa dovremmo fare invece per aiutare i ragazzi?

«Metterli al centro, concentrarsi su chi sono davvero, considerarli delle persone diverse da noi, con le proprie idee, i propri pensieri, i propri vissuti personali».

In pratica, quindi?

«Piuttosto che proibire il cellulare, per esempio, dovremmo educarli a vivere nella Rete, chiedendo loro come va su Internet, se socializzano oppure se hanno dei motivi che li fanno stare male. Poi, è fondamentale imparare a fare le domande giuste, senza paura. Dovremmo saper chiedere: “Hai mai pensato di suicidarti?”, “Come ti vedi davanti allo specchio?”, “C’è qualcosa che mi vuoi dire ma che non mi dici perché mi vedi fragile?”. Ovviamente, chiedere significa anche essere attrezzati a tollerare ciò che i nostri figli hanno da dire, a non vedere la loro risposta come un nostro fallimento. Significa permettere ai ragazzi di crescere e di essere se stessi, a modo loro».

Per noi adulti può essere faticoso, ma per i ragazzi significa riuscire finalmente a esprimere le proprie fragilità.

«Per loro è una liberazione poter dire alla mamma o al papà come stanno davvero, poter raccontare il proprio dolore senza incappare nel rischio di vederlo banalizzato o, all’estremo opposto, di essere additato come malato».Nella nostra società, però, abbiamo un cattivo rapporto con il dolore. «Si dovrebbe sdoganare il diritto alla sofferenza, invece di provare ad allontanare a tutti i costi i sentimenti negativi. Fanno parte della vita. Sì, si può essere tristi, pensare al suicidio, e intanto andare avanti, crescere. È giusto promuovere il benessere, ma questo non implica dover stare sempre bene. Non è realistico».

Il libro da leggere

Nel suo ultimo saggio, Sii te stesso a modo mio (Raffaello Cortina Editore), lo psicoterapeuta e presidente della fondazione Minotauro di Milano Matteo Lancini ci mostra come quelli non sufficientemente saldi, impreparati, incapaci di mettersi in posizione di ascolto, quelli fragili insomma, siamo noi genitori e non loro, i nostri figli. E ci spiega anche come poterli aiutare.