“Com’è andata a scuola?”; “Bene”. Stop.
La classica conversazione genitore-figlio a fine giornata, nella gran parte dei casi, non va oltre questo scambio di battute. Una cosa che, a volte, agita gli adulti: temono che il piccolo nasconda qualcosa o, semplicemente, patiscono l’essere tagliati fuori da una fetta importante della vita del bambino.
“E invece è giusto così e i genitori possono stare tranquilli: non è un atto di ostilità nei loro confronti né il segnale che, in classe, qualcosa non va” esordisce Elena Urso, pedagogista e autrice, con Elisabetta Rossini, del manuale I bambini devono fare i bambini (Bur).
“Prima di tutto perché i bambini, specie i più piccoli, non sono analitici e alla domanda “Cos’hai fatto oggi all’asilo?” rispondono “ho giocato” perché – dal loro punto di vista – è la risposta più completa e soddisfacente.
Che altro c’è da aggiungere? Alle elementari, invece, continuano a rispondere a monosillabi semplicemente perché non sanno bene cosa raccontare, oppure possono decidere di omettere cose che riguardano solo loro: è l’età in cui scoprono di avere un po’ di controllo su una realtà che i genitori non vedono e, giustamente, lo utilizzano.
Così scelgono di avere i loro segreti: la maestra aveva una gonna bruttissima che ha fatto ridere tutti, due compagni si sono fidanzati o la bidella ha litigato con la preside e così via. Alla fine, per loro, è la vita di classe, con le sue relazioni, a contare moltissimo. Molto più della lezione di geometria”.
COME CHIEDERE
Attenzione, però, questo, non significa che i genitori debbano smettere di fare la fatidica domanda. “Se la mamma non chiede “com’è andata oggi?” i bambini ci restano male” aggiunge Elisabetta Rossini, pedagogista.
“Perché hanno bisogno di sapere che i genitori li pensano anche quando sono lontani e si interessano alla loro vita. In fondo, nella relazione genitore-figli, a quest’età, più della risposta conta la domanda”.
Se, però, allo stesso tempo, si sente il bisogno di stimolare i bambini a parlare più di se stessi, occorre prima di tutto partire da sé.
“Per esempio, approfittando della cena per raccontare qualcosa della propria giornata” continua l’esperta. “Non serve scendere in dettagli, ma sforzarsi di dire per primi cosa è accaduto in ufficio, un episodio buffo, la discussione con un collega o con un cliente che è arrivato in ritardo. In primo luogo questo insegna, con i fatti, che le relazioni si coltivano anche con le parole, che è bello condividere con chi si ama delle parti di sé. E poi può essere lo spunto ideale per chiedere, alla fine, se anche a scuola è successo qualcosa di divertente o di strano. O per provare a fare domande diverse, tipo: “Com’era vestita oggi la maestra?”, “Nell’intervallo siete usciti in giardino? C’era il sole?”
È un modo diverso per stimolarlo alla narrazione, ma anche per abituarlo a tornare con la mente alla mattinata e a soffermarsi su un particolare che, altrimenti, gli sarebbe sfuggito.
QUANDO FARLO
Il momento meno indicato per fare domande? Non ci sono regole valide per tutti ma, in genere, mai subito dopo la scuola.
“Perché il bambino è stanco, vuole pensare ad altro, non ha molta voglia di parlare” continua Elena Urso. “Meglio rimandare all’ora di cena, senza fare il terzo grado: bastano cinque-dieci minuti. E, se il figlio risponde a monosillabi, invece di insistere, proporgli: “Adesso non hai voglia di raccontare? Ok, parliamo quando ti va”. E lasciarlo libero di scegliere. Anche perché, oggi, tutto quello che succede in classe non è più un mistero, tra registro elettronico e gruppi su whatsapp.
“Il genitore un po’ ansioso che si tranquillizza quando ha un resoconto quotidiano, può ricorrere a questi strumenti. Così gli sarà più facile accettare il fatto che suo figlio non ha sempre voglia di parlare. O che, magari, preferisce tenersi qualcosa per sé “.