Conosci la classe capovolta? Con flipped classroom si intende un nuovo modo di fare scuola e intendere la didattica. Spiegare per ore… non basta! La vera questione è iniziare a chiedersi quanto ci ascoltano i nostri interlocutori, ecco perché in una classe può fare molta differenza il tipo di atmosfera che si viene a creare e lo sanno bene sia gli insegnanti, sia gli alunni. Comunicare in modo efficace è la vera sfida, una rivoluzione in cui siamo solo allo start.

Ormaii sono molti gli studi a dimostrarlo: i vecchi metodi non funzionano più. Viene chiamata attenzione sostenuta la capacità di rimanere focalizzati su un’unica fontedi informazioni e concentrarsi su contenuti che richiedono un obiettivo, necessitando di uno sforzo costante. La capacità di attenzione varia nel corso della vita, può essere esercitata e incontrare  differenze profonde a seconda del contesto in cui ci troviamo. È qualcosa di cui tutti ci rendiamo conto e che sperimentiamo ogni giorno, a seconda delle persone e dei discorsi che ascoltiamo: è molto più facile essere tutt’orecchi se proviamo entusiasmo, viceversa quando qualcosa ci annoia basta un attimo per distrarre la mente e perdere il filo del discorso.

Come emerge da recenti studi effettuati monitorando l’attività celebrale di soggetti campione, la nostra soglia d’attenzione mostra una riduzione progressiva negli ultimi anni. Secondo i ricercatori del Brain & Mind Institute della University of Western Ontario, Canada, si tratta di una risposta naturale rispetto all’immensa portata di informazioni che  ogni giorno ci stiamo abituando a ricevere: la nostra attenzione è un flusso estremamente mobile, fattore ancora più significativo per quanto  riguarda bambini e adolescenti, la cui intelligenza è viva, spontanea, caratterizzata da un’insaziabile curiosità, che negli anni impariamo a tenere a bada.

Cosa significa lavorare con metodi come la classe capovolta? «L’insegnante non è visto come la fonte del sapere, bensì come un facilitatore che  aiuta i ragazzi nell’apprendimento e nell’organizzazione del sapere». Interrompere l’abitudine alla lezione frontale significa non stare in  cattedra, muoversi in senso fisico e teorico, esplorare ogni possibilità  della comunicazione. «Questo fa parte delle linee previste dalla classe capovolta: utilizzare i nuovi strumenti informatici e  di comunicazione cogliendone ogni stimolo. Sarebbe inattuale non farlo, perché i ragazzi sono circondati dalla tecnologia, che utilizzano in molti ambiti. È obsoleto pensare di non utilizzare computer o  dispositivi come le mail» spiega Elena Cervetti, insegnante, che ci ha raccontato l’esperienza di questo anno scolastico insieme ai ragazzi di II e III media dell’Istituto Comprensivo di  Pievepelago, in provincia di Modena.

«La scuola ha fornito a ogni studente una casella mail, che permette di entrare in Classroom, una piattaforma per la didattica in senso social messa a disposizione da Google per supportare il cambiamento in direzione di una scuola  digitale. Gli studenti hanno un codice segreto per entrare nella classi virtuali che corrispondono alle varie discipline come Geografia o Lettere». Com’è organizzato l’apprendimento? «Prima di fare lezione carico sulla  classe virtuale un contenuto multimediale, per esempio un video. Sul web  è presente una grande quantità di filmati e video di  qualità, soprattutto per quanto riguarda argomenti di storia. Il video  si riferisce alla lezione successiva. I ragazzi apprendono le nozioni a casa e, guardando il video, iniziano a muoversi  ricevendo un’infarinatura.  Poi in classe si lavora sul contenuto per esplicitarlo, approfondirlo oppure capire meglio i passaggi che non sono stati compresi. La classe è capovolta perché prima si prevedeva la trasmissione in classe, mentre a casa si lavorava sui contenuti, compito che, tuttavia, costituisce proprio la  parte più impegnativa da affrontare da soli; in questo caso avviene l’opposto».

Quali sono i vantaggi? «In classe è possibile strutturare varie attività, per esempio abbiamo scaricato documenti da diversi siti e i ragazzi si sono impegnati in un’indagine su confronto e approfondimento delle cause  della prima guerra mondiale; successivamente su questo hanno creato una relazione divisi in gruppi di lavoro». La classe diventa un laboratorio vivo ed ecco di cosa è fatto il cuore autentico dell’apprendimento: esercizio di ricerca delle fonti, riorganizzazione del pensiero, capacità di elaborare cause e conseguenze, che per inciso costituisce una delle difficoltà più ostiche della storia, ma anche dell’attualità perché significa coltivare autonomia nella visione delle cose.

«È importante ricordare che potenziare l’uso di formati come il video costituisce un aiuto è fondamentale per la didattica inclusiva. Chi è dislessico si trova ad avere un compito uguale alle altre  persone, ma al tempo stesso può cogliere la preziosa occasione di  imparare secondo le abilità specifiche, vedendo e ascoltando, mandando indietro il filmato se necessario».

Come hanno reagito i ragazzi al cambiamento? «All’inizio non è mancata qualche titubanza e molti faticavano a collegarsi. Credo sia del tutto naturale perché per anni sono (siamo!) stati abituati a fare scuola in modo diverso. Oggi tutti sono attivi e sanno utilizzare gli strumenti a disposizione. Un nuovo modo di concepire i test di verifica ha dato prova di un ulteriore riscontro positivo. Abbiamo sperimentato  una modalità differente, in cui gli alunni stessi preparano gli esercizi per i compagni. La classe viene divisa in due gruppi ed entrambi si impegnano sia nella risposta sia nell’elaborazione di domande. Chiaramente io l’insegnante aiuta a far capire lo standard in modo da imparare a valutare cose semplici e difficili. Gli studenti hanno dimostrato di assolvere questi compiti con grande serietà, molta concentrazione e… persino un pizzico pignoleria! »

Collaborare con gli altri per mettere a punto un test per i compagni significa uscire dal ruolo di studente e imparare a osservare la realtà muovendosi in un piano differente: «Mentre pensiamo alle domande da fare, proprio come un  professore, nella nostra mente si svolge un processo di rielaborazione e sistematizzazione delle nostre conoscenze: impariamo moltissimo». Lavorare in gruppo è capacità di condivisione, un’abilità su cui gli esperti puntano sempre di più. Non è importante solo la nostra intelligenza, ma quanto sappiamo metterla a disposizione del mondo collaborando insieme agli altri.

«A casa si ottengono le informazioni, a scuola esse vengono rielaborate. Esattamente l’opposto rispetto a quanto si fa normalmente!» Attenzione, non diamo questo approccio per  scontato: sembra ovvio, in realtà ancora oggi si utilizza la lezione frontale nella maggior parte dei casi e non vengono cercati attivamenti metodi alternativi». Iniziare a pensare in termini di abilità differenziate forse è il primo passo di un viaggio in cui siamo solo all’inizio. Ogni bambino è un essere umano unico e porta con sé la valigia del suo  personale complesso di competenze, carattere e modalità di esplorare il mondo.

Possiamo immaginare la scuola del futuro non come il luogo dove tutti devono adeguarsi o uniformarsi, bensì lo spazio di libertà e rispetto in cui ognuno sia in grado di esprimere ciò che è. «Considerare la missione dell’insegnante come un compito di pura trasmissione del sapere ricorda per certi aspetti i soldati giapponesi che non si erano accorti della fine della seconda guerra mondiale» scrive Tullio De Mauro parlando della classe capovolta.

Dalle pagine di storia il viaggio diventa interrogativo sull’attualità. Che cosa significa veramente lasciare la propria famiglia? La prof. Elena Cervetti, che ha una laurea in Scienze della Comunicazione Scritta ed Ipertestuale, spiega: «Abbiamo studiato le guerre, i processi di migrazione e gli italiani nel mondo. Con i ragazzi ci siamo chiesti che cosa metteremmo nello zaino se dovessimo abbandonare casa all’improvviso. A sorpresa, tra le risposte più frequenti: il cellulare, per restare in contatto, sentire la voce degli amici, ritrovare la famiglia. Lo stesso oggetto che di frequente viene frainteso visto in mano a uno straniero». Grazie all’Associazione Kaleidos ragazzi e insegnanti dell’Istituto Comprensivo di Pievepelago hanno avuto l’opportunità di incontrare alcuni profughi: adolescenti con appena qualche anno in più, che per una mattina hanno raccontato le loro esperienze. Il razzismo si combatte soprattutto così, guardandosi negli occhi.

La maggior parte di noi non sa che cosa significa vivere la guerra, una cicatrice sulla pelle e nell’anima. Ciò che possiamo scegliere è allungare una mano verso la storia che l’altro ci offre, trasformare lo sguardo di uno sconosciuto in una possibilità. La Storia si fa adesso, diciamolo ai bambini: rovesciamo i banchi e alziamoci in piedi, tenendoci per mano.