Era il periodo della guerra in Vietnam e il maestro Gianni Rodari era solito farsi portare ritagli di giornale in classe dai suoi alunni per commentare insieme cosa accadeva nel mondo. Succedeva in una scuola elementare di Via Tiburtina, a Roma, la stessa in cui ho mosso i primi passi io 4 anni fa.
Le domande dei bambini sulla guerra
Sono un’insegnante e il confronto con i bambini sulla guerra è stato uno dei primi ambiti di lavoro per un progetto scolastico che coinvolgeva gli studenti dalla terza alla quinta elementare. Era il 2020, eravamo tutti distratti dalla pandemia, eppure il mondo era dilaniato da conflitti armati di varia natura di cui c’era scarsa percezione. Le prime domande (per me) difficili non tardarono ad arrivare. Ma se adesso scoppia una guerra moriamo tutti? Ma ci mandiamo i soldati per fare la pace? Ma se per sbaglio un volontario viene colpito dalle bombe? Mi si imperla la fronte ripensandoci: fingevo disinvoltura tra approdi storici, geografici, memorie (anche quelle dei loro nonni) e attualità, temendo di sbagliare parola, tono, atteggiamento.
Cosa resta ai bambini della violenza che vedono in tv o sui social?
Sono passati 4 anni e chiunque lavori a scuola non può evitare di chiedersi che cosa arrivi ai bambini dell’escalation di violenza che avanza di ora in ora nel mondo. Quanto resta, dentro quegli sguardi ingenui, dei drammi in onda sui tg o dei commenti degli adulti? Cosa riescono a decifrare delle immagini sanguinarie che scorrono sui social media? Come li fa sentire tutto ciò? Se lo è chiesto anche la giornalista e scrittrice Francesca Mannocchi il giorno che suo figlio Pietro, 6 anni, le ha detto davanti alla tv: «Ma la guerra quando arriva da noi?». Domande che muovono domande.
La sua risposta è stata prima un libro, Lo sguardo oltre il confine (DeAgostini), e adesso un podcast, Per esempio, la guerra, un progetto di Chora Media in collaborazione con Giffoni Innovation Hub. Davanti ai quesiti, timori, emozioni di studenti di classi elementari e medie, la reporter di guerra prova, con linguaggio semplice ma mai impoverito, attraverso l’autenticità dell’esperienza diretta, a illuminare zone d’ombra, a orientare – se possibile – chi dialoga con lei. Ucraina, Afghanistan, Libia, Siria, Libano, Iraq, Gaza: a ogni Paese è dedicata una puntata.
L’empatia è la chiave
Divoro il podcast in due giorni, a onor del vero sciogliendo anche io alcuni dubbi e pensando di volerlo divulgare con ogni mezzo possibile a colleghi di scuole di ogni ordine e grado. Perché il racconto di Francesca Mannocchi accompagna con estremo tatto a un esercizio di immaginazione e immedesimazione di rara efficacia: la vita nei campi profughi, l’evacuazione dei civili sotto i bombardamenti, lo spazio-tempo del dopoguerra sempre troppo poco attenzionato. Soprattutto adesso che lavoro tra studenti appena arrivati alle superiori, mi rendo conto che, oltre alla ricostruzione storica e geopolitica di un conflitto, empatizzare con certi scenari accresce la compassione nel suo significato più profondo.
Le informazioni sono troppe, i ragazzi chiedono una bussola
Per molti preadolescenti, che si trovano a sfogliare le guerre nel mare magnum dei social, il discernimento si fa urgente. «L’età delle medie è un’età particolare. In questi mesi mi sono stupita di quanto questi ragazzini siano problematizzati da un accesso incredibile alle informazioni e di come contestualmente chiedano una bussola per poter camminare meglio in una strada piena di interrogativi che per mille ragioni la scuola spiega fino ad un certo punto» dice Mannocchi.
Prima dell’ideazione del podcast, aveva scritto il libro Lo sguardo oltre il confine per raccontare le guerre ai ragazzi provando a rendere semplice qualcosa di gigantesco. «Mi sono concentrata su Paesi che conosco particolarmente bene e che racchiudono storie diverse, di migrazioni, di fondamentalismi, di guerra, accompagnando bambini e bambine attraverso le storie di loro coetanei e coetanee che vivono vite per lo più inimmaginabili, contestualizzate attraverso l’uso di mappe fisiche legate alla geografia e di mappe che tracciano la storia delle parole, che nel tempo subiscono delle trasformazioni» mi racconta.
Rispondere alle domande dei bambini sulla guerra: emozione e responsabilità
«Le richieste da parte delle scuole mi hanno stupito» continua «perché né il podcast né il libro vogliono sostituirsi alla manualistica. Rappresentano una fotografia dell’oggi fatta da storie di vita: entrare nelle classi, trovare dei bambini che hanno le famiglie in Ucraina e parlare dell’Ucraina sono un’emozione e una responsabilità molto grandi». Anche nella mia classe dello scorso anno c’era un ragazzino ucraino. Quando la mia collega di italiano e storia, Daniela, con cui ero spesso in compresenza, parlando della guerra gli ha chiesto con tono amorevole se avesse piacere di indicare ai compagni dove si trovassero i suoi parenti sulla cartina geografica appesa alla parete, in quell’aula sempre molto rumorosa si è creato un inusuale silenzio che sapeva di interesse e rispetto.
Un altro cruccio che mi pongo, quando mi capita in momenti informali di sondare umori e conoscenze degli studenti sul tema, è se e quanto sia percepibile una certa parzialità nelle mie domande, un malcelato giudizio di fronte a espressioni che non vorrei sentire: anche in questo il podcast di Mannocchi torna utile per ricordare che la divisione del mondo in buoni e cattivi non è mai servita a spiegare, figuriamoci a capire.
Capire il presente, vicino e lontano
Preziosa per la realizzazione di Per esempio, la guerra è stata la collaborazione dei docenti che hanno trasferito alla giornalista la grande curiosità degli alunni. «Penso che con grande coraggio e difficoltà occorra condurre questi ragazzini nel presente che ha bussato alle loro porte in maniera invadente» continua Mannocchi. «Bisogna che comprendano, con strumenti adatti alla loro età, cosa succede intorno a noi e che tutto ciò che accade intorno a noi ci coinvolge, che avvenga in Europa, al di là del Mediterraneo o in altri continenti».
Le domande dei bambini sulla guerra dicono anche qualcosa di noi
E se il processo di apprendimento può dirsi tale solo se circolare, cosa ha imparato Francesca Mannocchi da questa esperienza? «Che le domande dei bambini sulla guerra non contengono risposte né pregiudizi e nemmeno un’idea, ma chiedono che l’idea si possa creare sulla base di una conoscenza. Ho imparato che bisogna mettersi in ascolto di domande che non ci eravamo posti, e che i bambini sanno porre in una modalità stupefacente. Come quella di mio figlio: non “se” arriva la guerra, ma “quando” arriva. Devi entrare in quella paura, stare all’erta sulle antenne che i bambini hanno mentre noi pensiamo che subiscano in maniera passiva lo sciame di informazioni che li raggiunge».