Non so cos’abbia detto, ma avrei tanto voluto saperlo. Passeggiavo in un via del mio quartiere un sabato mattina e una ragazza, avrà avuto 18 anni, ferma a metà sul portone di casa riportava alla sua amica il parere della sua terapeuta. Lo riferiva con aria solenne, o quantomeno piena di fiducia, facendo intendere che quelle parole erano state per lei preziose, un balsamo, una mappa, una luce nel buio.

Ho avuto invidia per lei. Per la psicologa. Depositaria delle ambasce sentimentali dei nostri figli, delle loro ansie da prestazione, delle insondabili crisi esistenziali in cui talvolta annegano chiudendosi in mutismi inespugnabili

Delle parole che solo nel suo studio sgorgano dalle loro bocche senza bisogno di essere estorte o estrapolate una a una, delle domande in cerca di risposte che a noi non fanno mai, delle emozioni belle e brutte a noi precluse, dei desideri inespressi, dei sogni taciuti e a volte ingabbiati dalle aspettative altrui. Cioè di noialtri. Che anche se stiamo zitti trasferiamo senza volere su di loro proiezioni e pretese; anche se cerchiamo di fare del nostro meglio inevitabilmente sbagliamo; anche se ci facciamo da parte risultiamo sempre ingombranti e fastidiosi. Talvolta inopportuni. Inutili.

Con chi scelgono di comunicare i nostri figli?

E forse è questa la cosa che ci pesa di più. L’irrilevanza che a un certo punto acquisiamo nelle esistenze dei nostri ragazzi. La consapevolezza che di punto in bianco non serviamo più, se non per elargire paghette e cucinare quando arrivano. Non cercano più noi per risolvere i problemi. Anzi, spesso il problema siamo noi. Inutile restarci male, è così. Per questo esistono gli specialisti. Per sistemare gli Edipi e tutte le mancanze e i disastri che combiniamo senza accorgercene, in totale buona fede.

I ragazzi si affidano sempre di più agli psicologi

Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, sono cresciuti in modo esponenziale gli accessi ai servizi di supporto psicologico da parte dei giovani, soprattutto dopo la pandemia. In parte per l’aumentare di veri e propri disturbi psicologici come ansia, attacchi di panico, depressione, fobia sociale. In parte per una diffusa sensazione di inquietudine rispetto al futuro. Una difficoltà a orientarsi e capire dove indirizzare i propri talenti, come trovare il proprio posto nel mondo, fissare un baricentro, sentirsi al sicuro.

Genitori, non smettiamo mai di cercare la comunicazione con i nostri figli!

Eppure noi ci siamo. Anche troppo, a volte. E il nido che creiamo è così comodo e caldo che non è facile staccarsene, pur sentendone il bisogno. Specialmente se non si è allenati al volo, una cosa che si impara poco a poco. Secondo l’Osservatorio sull’adolescenza dell’IRPPS-CNR (Istituto di Ricerche sulla popolazione e le politiche sociali), la bassa autostima è sempre più diffusa tra i ragazzi.

Si mostrano forti, ma in realtà sono fragilissimi, bisognosi di aiuto ma incapaci di chiederlo. Soprattutto a casa. Dove i non detti ergono muri così alti che poco alla volta si diventa estranei

A farci paura non dev’essere la distanza, che fa parte del crescere, ed è una sofferenza necessaria (più per noi che per loro). Ma il fare finta che vada tutto bene. È frustrante parlare con i figli adolescenti, inutile negarlo, ma non dobbiamo smettere di farlo. Soprattutto quando ci sembra più difficile. Sfruttare quei pertugi che ogni tanto si aprono tra due monosillabi e una porta sbarrata, per mostrarci presenti. Non serve dare “lezioni di vita”, come le chiamano loro, né consigli non richiesti. Non vogliono consigli i nostri figli. Non da noi. Vogliono altro. Già, ma cosa?

Amorevole autorevolezza: ciò che serve nella comunicazione tra genitori e figli

Abbiamo provato a capirlo. Perché talmente grandi sono le solitudini che germogliano in famiglia, talmente imponderabili e spaventose le conseguenze che a volte generano, come hanno mostrato alcuni recenti fatti di cronaca, che dobbiamo imparare a riprendere i contatti. Metterci in ascolto. Non solo delle parole, anche dei silenzi. Sintonizzarci coi cuori dei nostri ragazzi, come ci ha spiegato lo psicopedagogista Stefano Rossi. Imparare l’empatia. Che è fatta più di gesti che di discorsi. Più di presenza che di raccomandazioni. Non minimizzare, ma dare importanza. Non mettersi alla pari, ma ritagliarsi un ruolo di amorevole autorevolezza, che li faccia sentire guidati e contenuti. Ma soprattutto amati e apprezzati per quello che sono. «Se fosse così» mi ha detto un giorno uno psicologo «il nostro mestiere neanche esisterebbe».