Per chi firma un contratto di collaborazione, le incognite non mancano. Riguardano sia la tutela dei propri diritti, sia gli obblighi nei confronti del datore di lavoro. Ecco dieci risposte ai dubbi più frequenti.
Mi hanno offerto una collaborazione. Chiedo un contratto scritto?
Non è sempre obbligatorio per legge. Ma, per avere in mano un documento da far valere in caso di irregolarità, è meglio chiederlo. Se si tratta di un contratto a progetto, oltre alla durata, al tipo di progetto e al compenso, deve indicare le forme in cui si verrà coordinati e i motivi che consentono la conclusione anticipata del contratto.
Il compenso che mi offrono mi sembra basso. Ho il diritto di negoziare una cifra più alta?
La legge Biagi stabilisce che il compenso di un collaboratore deve essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito. E proporzionato alle retribuzioni già riconosciute nello stesso posto di lavoro ad altri collaboratori. L’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, inoltre, (Forum sul lavoro 2007) ha chiarito di recente che, per stabilire il compenso di un collaboratore, occorre fare riferimento ai contratti collettivi dei collaboratori (se esistenti) o, in caso contrario, a quelli dei dipendenti. Anche se, naturalmente, possono esistere differenze (per età e formazione) tra collaboratori che svolgono prestazioni identiche.
Il mio datore di lavoro stabilisce, mediamente, compensi più alti ai collaboratori maschi: è nel suo diritto?
Non esiste un principio generale che obbliga a riconoscere lo stesso compenso a due collaboratori. La sola differenza di sesso, però, non può giustificare un trattamento diverso se la donna svolge le stesse prestazioni e ha lo stesso inquadramento professionale
di un collega uomo. Lo stabilisce, oltre alla nostra Costituzione (articolo 3), il Trattato di Amsterdam, che promuove il principio di uguaglianza anche a livello retributivo. E lo ribadisce il Codice delle pari opportunità, in vigore nel nostro Paese da giugno 2006.
Prima di firmare, devo stabilire anche le cause di conclusione del contratto?
Sì, è sempre consigliabile farlo. Anzi, bisognerebbe mettere nero su bianco anche l’obbligo e la misura del preavviso da dare in caso di rottura anticipata del rapporto. Le parti, infatti, possono sempre cessare di collaborare prima del previsto per una giusta
causa, cioè per un motivo talmente grave da non consentire la prosecuzione del contratto. Non solo. Datore di lavoro e collaboratore possono prevedere, comunque, altre cause di fine o interruzione del rapporto.
Ho firmato un contratto di collaborazione: quali formalità burocratiche sono adesso a mio carico?
Il collaboratore a progetto e quello Co.co.co. hanno l’obbligo di iscriversi alla gestione separata o autonoma dell’Inps, presentando domanda direttamente agli uffici delle varie sedi oppure tramite Internet (www.inps.it). Nel compilare la domanda, devono anche comunicare i dati del committente. Che, a sua volta, dovrà iscrivere il lavoratore all’Inail e comunicare l’avvenuta assunzione al Centro per l’Impiego (si chiamano così, oggi, i vecchi uffici di collocamento) della propria zona.
Ho un contratto a progetto: se rimango incinta, rischio di perdere il lavoro?
No, ma il contratto rimane sospeso e vengono interrotti i pagamenti. La chiusura del contratto, inoltre, viene prorogata di 180 giorni oltre il termine che era già stato stabilito. A meno che le parti concordino una tutela più favorevole alla collaboratrice. Questa, comunque, ha diritto a ricevere dall’Inps l’indennità per i 5 mesi di maternità obbligatoria. E quando riprende a lavorare può contare sui congedi parentali. Due diritti che le vengono garantiti anche nel caso in cui la lavoratrice abbia ottenuto un bambino in adozione.
Che cosa succede se mi ammalo?
Il contratto e il compenso vengono sospesi. Ma, come stabilito nella Finanziaria 2007, il lavoratore riceve l’indennità giornaliera. Se, però, la malattia si prolunga per oltre un sesto della durata del contratto (per esempio, una malattia di tre mesi su un contratto di un anno), il committente ha diritto di concludere il rapporto.
Posso fare lo stesso lavoro per diverse società?
Sì, fermo restando l’obbligo alla riservatezza: il collaboratore, infatti, non deve diffondere notizie alla concorrenza. No, invece, se è stato stipulato un accordo di esclusiva. Il problema, invece, non si pone se le attività svolte per più committenti sono di tipo diverso.
Con le collaborazioni potrò maturare la pensione?
Certo: a fronte del versamento dei contributi nella gestione separata dell’Inps, la pensione si può ottenere in due casi. E, cioè: con 57 anni di età (per entrambi i sessi) e 5 anni di contribuzione. Dal 2008, invece, occorre l’età di 65 anni per gli uomini e di 60 per le donne. Ci sono poi altre due possibilità per andare in pensione: la prima è di avere versato 35 anni di contributi e raggiunto 60 anni di età. Oppure, indipendentemente dall’età, avere 40 anni di contributi.
Quando sarò in pensione potrò continuare a collaborare?
Un pensionato può continuare a collaborare senza rischiare riduzioni della pensione solo in alcuni casi. I principali sono: se ha accumulato 40 anni di contributi o se ha compiuto 60 anni (per le donne) o 65 anni (per gli uomini). Oppure, se è andato in
pensione dopo il 1° gennaio 2003, raggiunti 58 anni di età e 37 anni di contribuzione. Se non rientra in questi due casi, il pensionato che collabora vedrà ridotta la pensione del 30 per cento della quota che eccede il trattamento pensionistico minimo (per il 2007 pari a 436,14 euro), ma entro i limiti del 30 per cento del suo reddito.