Quando il figlio “non funziona”, molti genitori si addossano la colpa. È fondamentale capire che i disturbi dell’apprendimento non derivano da errori commessi dai genitori, ma da problemi neurologici, che spesso sono già presenti in famiglia, magari non diagnosticati: quello zio “asino” che non ha finito le scuole potrebbe essere un dislessico non riconosciuto.
L’attenzione verso le difficoltà oggettive nell’apprendimento è relativamente recente, e a volte sfugge anche ai più attenti: può riguardare solo un’area funzionale, essere più o meno grave e gestibile.
Racconta Roberta Scotto Galletta: “Poco tempo fa ho incontrato una mia paziente dislessica, a passeggio per le strade con un’amica. Mi ha raccontato della scuola media e dei primi amori. All’improvviso le è trillato il cellulare: era un messaggio. Ha aperto il flip e si è messa a leggere invitando l’amica a condividere. L’amica leggeva ad alta voce le parole più lunghe. Hanno finito questo giochino, dopo una manciata di minuti, con me lì davanti. ‘Con le amiche divido tutto’ ha detto lei. ‘Specie quando mi arrivano sul cellulare romanzi e non messaggi brevi!’ ha concluso.”
Un bambino dislessico diventerà adulto, e dovrà fare i conti con la dislessia per tutta la vita. Il compito del terapeuta e dei genitori è di metterlo nelle condizioni di gestire il suo limite in modo consapevole, rendendo partecipi le persone che ha intorno anziché difendersi e vergognarsi. L’obiettivo, come per tutti, è una vita serena, in cui un limite non sia un peso insostenibile che bisogna portare da soli.