«Le famiglie italiane non sono certo più quelle di 20-30 anni fa. Oggi i genitori sono mediamente più disponibili a riconoscere e accettare l’omosessualità dei propri figli. O anche, semplicemente, dei comportamenti “ambigui”» osserva Filippo Sani, counselor e orientatore nello staff del Centro psicopedagogico per l’educazione di Piacenza.
«Pochi mesi fa, per esempio, una mamma mi ha chiesto: “Come devo comportarmi con mio figlio di 3 anni che vuole vestirsi da bambina per andare alla materna?”. Il mio primo pensiero è stato che, a quell’età, i bambini non si giudicano ma, allo stesso tempo, vanno protetti. Il consiglio, quindi, è stato di spiegare al piccolo che non c’è niente di male nel vestirsi in quel modo ma che è meglio farlo solo a casa».
E quando i figli sono più grandi? Secondo l’esperto, è importante che arrivino all’adolescenza con le “spalle larghe”, vale a dire con un’identità di sé sufficientemente solida da reggere l’eventuale ostilità da parte degli altri. «Un risultato che si raggiunge se i genitori, di comune accordo, hanno lavorato bene sul fronte dell’educazione “emotiva”. Cioè se, fin dall’infanzia, hanno ascoltato i figli, stimolandoli a parlare delle loro emozioni senza giudicarli. In questo caso diventeranno ragazzini forti, capaci di affrontare i commenti degli altri».
Ma non in tutte le famiglie c’è questa abitudine al dialogo. E molti adulti, anche di mentalità aperta, vanno in crisi di fronte al pensiero di avere un figlio omosessuale. Per di più, fin dalla preadolescenza, i ragazzi cominciano ad avere i loro segreti: dialogare con loro diventa, via via, più difficile. «È giusto così ma, allo stesso tempo, mamma e papà non devono fare finta di niente. È importante che, prima di tutto, ne parlino tra di loro. Poi, se dovessero accorgersi che il ragazzo è in difficoltà, il consiglio è di farsi aiutare da un esperto» suggerisce la psicologa Daniela Bavestrello.