Il parto indotto
Viene effettuato quando è necessario provocare artificialmente il travaglio. Ecco in quali casi è indicato:
Quando la gravidanza è oltre il termine, quando cioè sono trascorsi dieci giorni dalla data presunta del parto. Aspettando ulteriormente, le probabilità che il travaglio si avvii spontaneamente sono minime, mentre aumenta il rischio di complicanze.
Quando si è verificata la rottura del sacco amniotico. Se nel giro di dodici-ventiquattro ore il travaglio non dovesse avviarsi spontaneamente, è necessario procedere con l’induzione per evitare il rischio di infezioni.
Quando la mamma soffre di alcune patologie come ipertensione, diabete.
Quando vi sono alcuni sintomi di sofferenza fetale.
Per indurre il travaglio si usa più frequentemente un gel a base di prostaglandine (sostanze presenti in natura e capaci di stimolare il travaglio). Il gel viene introdotto in vagina con un applicatore ad una concentrazione tale da favorire la dilatazione del collo dell’utero.
Le altre due modalità di induzione, meno frequenti, sono l’amnioressi, cioè la rottura provocata del sacco amniotico e la somministrazione, tramite flebo, di ossitocina, un ormone che stimola l’attività contrattile dell’utero. L’induzione, però, non funziona sempre. In tre casi su dieci occorre procedere con il cesareo. E, in ogni caso, è una strada “di non ritorno”: una volta imboccata, si deve arrivare necessariamente al parto.
Il parto pilotato
Viene effettuato quando il travaglio è iniziato spontaneamente e si prolunga perché le contrazioni sono inefficaci, non dilatano cioè il collo dell’utero, oppure quando la mamma ha perso le forze e non riesce più a spingere. Vengono così somministrati dei farmaci, soprattutto ossitocina, che stimolano la muscolatura dell’utero e abbreviano i tempi della nascita.