Quella che a prima vista era sembrata una tragica scoperta, ha poi assunto i contorni di una storia drammatica. I corpi dei due neonati, trovati nel giardino di una villetta a Traversetolo, in provincia di Parma, sarebbero proprio i figli di una studentessa 22enne, che li avrebbe partoriti e poi sepolti. Lei ha ammesso la prima gravidanza, mentre il padre del neonato e fidanzato della giovane, sarebbe stato all’oscuro di tutto. La ragazza, indagata per omicidio volontario e occultamento di cadavere, avrebbe anche cercato su internet informazioni su come indursi il parto. Si aggiungerebbe, così, alla lista di madri autrici di infanticidio.
Infanticidio: il caso di Parma
Il caso è emerso dopo la segnalazione di un vicino di casa, che ha portato a scoprire, lo scorso 9 agosto, il primo neonato, avvolto in un sacchetto di plastica, coperto da un sottile strato di terra. I test genetici hanno poi confermato che si tratta del figlio, maschio, della giovane. Secondo quanto emerso da un primo esame, il piccolo avrebbe respirato per poi morire in poco tempo. Nei giorni scorsi, però, è avvenuto un secondo ritrovamento: in questo caso sono state scoperte solo ossa, quindi potrebbe trattarsi di un altro neonato, venuto alla luce circa un anno fa.
Chi è la 22enne fermata
La giovane è una studentessa 22enne di Giurisprudenza. Vive con i genitori e il fratello minore nella villetta del ritrovamento, in un quartiere residenziale della ricca frazione del parmense. Non avrebbe problemi economici e, al momento del ritrovamento, lei e tutta la famiglia erano in vacanza negli Stati Uniti, partita due giorni dopo aver dato alla luce il neonato, secondo quanto emerso. Amiche e parenti, poi interrogati, hanno affermato di non aver saputo nulla né della gravidanza né dell’occultamento del corpo (poi rivelatisi due).
Le ricerche in rete su come partorire
Sempre dalle indiscrezioni emerge che la studentessa avrebbe effettuato alcune ricerche in rete cercando “come indurre il parto” e “come partorire il secondo figlio”. Se tutto ciò fosse confermato, la ragazza avrebbe dato alla luce entrambi i neonati all’insaputa di tutti. Un dettaglio che stona con il racconto della madre del fidanzato e con quello di altri conoscenti della giovane e della sua famiglia, che in paese hanno già ribattezzato il neonato trovato un mese fa col nome di “Angelo”.
«Non può aver fatto tutto da sola»
Il piccolo centro di Traversetolo è sotto shock, come la famiglia della giovane, che ha nominato un legale per tutelare la riservatezza. A parlare, invece, è stata la madre del fidanzato della 22enne indagata. Ha spiegato che il figlio è “devastato”. All’Ansa ha poi raccontato che i due: «Si conoscono da quando erano alle elementari, stavano insieme, l’abbiamo vista due giorni prima di quel 9 agosto. La cerchia di amici e frequentazioni è quella, il giro è sempre lo stesso. Com’è possibile non essersi resi conto che lei era incinta? Le assicuro che non era possibile, ha girato tutta l’estate con la pancia scoperta. Ma vedremo, non può aver fatto tutto da sola».
Cosa può spingere all’infanticidio
Se la dinamica fosse confermata, si tratterebbe di un ennesimo caso di infanticidio. «Ogni storia è a sé. Premesso questo, sarebbe importante prima di tutto imparare ad ascoltare le donne e il loro disagio, anche se questo riguarda un tema così polarizzante e delicato come la maternità. Ma nella società della performance sappiamo che anche la maternità ha i suoi diktat e “un solo modo giusto” di farlo. Diciamo che il filo rosso comune di molti casi di infanticidio è proprio la mancanza di comprensione (di sé stessi in primis rispetto a ciò che si desidera e di cui si ha bisogno), che passa necessariamente per il sentirsi libero di comunicare: la comunicazione umana è una palestra per lo sviluppo della nostra coscienza», spiega Paola Calvello Cornejo, psicologa clinica e criminologa.
Un gesto contro natura?
Togliere la vita a un proprio figlio, però, porta con sé l’idea di un gesto “contro natura”: «Torniamo sempre lì, alla grande domanda della scienza: natura o cultura? Fra le persone che non hanno specifiche formazioni sul tema, si fa una gran confusione, adducendo al termine “naturale” ciò che in realtà è “culturale”. Noi siamo mammiferi, ma il cui cervello lavora molto. In realtà viviamo un processo evolutivo: l’area più interessata di recente è la corteccia, che non sempre comunica benissimo con le due parti più antiche (limbico e rettiliano) e viceversa, per cui dobbiamo fare un “lavoraccio” costante di monitoraggio e consapevolezza. L’allontanamento rispetto a ciò che si riterrebbe “naturale” avviene proprio dal cortocircuito fra questi sistemi non ben sincronizzati», spiega l’esperta.
Il ruolo del maternity blues
Nella maggior parte dei casi, gli infanticidi commessi da madri sono spiegati con il cosiddetto Maternity Blues, la depressione post partum. La sindrome, che porta una madre a uccidere il proprio figlio, si accompagna però a un grande senso di solitudine. «Sappiamo che gli aspetti ormonali hanno influenze fortissime sul nostro stato di salute: ricordiamoci che siamo anche fatti della chimica del nostro cervello. Ma soprattutto va prestata attenzione proprio al senso di solitudine. La vergogna, poi, è un aspetto ancora più complicato, che ha a che fare con l’idealizzazione della maternità e la pressione sociale rispetto alla “performance materna” che spesso, purtroppo, inizia in ospedale con verbalizzazioni dei sanitari del tipo “ora sei madre, non puoi permetterti di dormire e rilassarti”», sottolinea Calvello.
“Figlicidi” in aumento
Secondo un report Eures sugli omicidi in famiglia, i figlicidi erano aumentati nel tempo. Dal 2010 al 2022 in Italia sono stati commessi 268 figlicidi, con una media di quasi uno ogni due settimane: nel 55,6% dei casi (149 episodi) si tratta di bambini con meno di 12 anni. Il fattore età non è di poco conto: quanto più le vittime sono grandi, maggiori sono i casi nei quali l’autore dell’infanticidio è il padre, mentre il rapporto si ribalta quando i bambini hanno tra 0 e 5 anni, quando a compiere il gesto estremo sono soprattutto le madri (61 casi, pari al 57,5%, contro i 45 commessi dai padri, pari al 42,5%).
Le madri autrici di neonaticidi
Le analisi rivelano anche che in oltre un terzo dei figlicidi (il 34,3%) il movente è legato a un disturbo psichico dell’autore (depressione o altro disturbo psicologico), che sale al 54,2% dei casi quando ad uccidere il proprio figlio è la madre. Proprio questa causa è la più diffusa nei casi di neonaticidio, ovvero l’uccisione del figlio nei primi giorni/mesi di vita a seguito di uno stato di forte depressione. Nelle stesse ore in cui si è saputo di quanto accaduto nel parmense, però, a Miane nel trevigiano una donna di 45 anni, Susanna Recchia, è stata trovata senza vita in un torrente, abbracciata alla figlia di 3 anni, dove si era gettata. I due casi, però, appaiono molto diversi.
Infanticidio e “depressione rabbiosa”
«Devo dire che questi casi di omicidio-suicidio mi hanno sempre un po’ colpita per la presenza di alcuni pattern. Per esempio, in Trentino vicino al lago santa Giustina esiste un ponte tristemente noto per i suicidi: lo scorso anno una madre di 41 anni si è lasciata cadere nel vuoto assieme al figlio di 4 anni. Come nel caso di Susanna Recchia, anche lei si era separata dal marito. Molte depressioni si sviluppano proprio se percepiamo di aver perso risorse fondamentali (materiali o psicologiche). Il problema, però, si presenta se quella perdita viene percepita in un quadro di fallimento personale o in una perdita di “status”, rischiando di scivolare verso il risentimento, la frustrazione e le pretese, che possono portare a commettere reati. È la cosiddetta “depressione rabbiosa”, che ha a che fare con le pretese che abbiamo verso noi stessi e gli altri», osserva la psicologa e criminologa.
Come chiedere aiuto?
«Sicuramente la comunicazione e la condivisione sono le strade auspicabili per evitare casi analoghi, ma credo che un gran lavoro ancora necessario abbia a che fare con lo stigma della salute mentale, che ci riguarda tutti. Siamo, infatti, esseri umani che lottano in una vita complessa e non a nostra misura e dimensione – sottolinea l’esperta – Lo stigma porta alla vergogna che porta alla chiusura e alla necessità di apparire sempre perfettamente sani e performanti, in un circolo vizioso infinito. Non c’è spazio per comunicare le fatiche perché sono viste come anomalie da “fixare” e non come qualcosa che fa parte della nostra natura umana. Dovremmo provare a concederci di essere solamente più umani».