Suona quasi come una provocazione: ci vorrebbero più uomini negli asili nido e nelle scuole materne, per cerare una nuova cultura della parità capace di prevenire la violenza sulle donne. Federica Benassi, counselor sistemico familiare, una trentennale esperienza nell’educazione grazie all’asilo che ha fondato (La torta in cielo) e alle tante esperienze in Italia e all’estero, lancia questa idea nel nuovo libro appena pubblicato L’educazione dei maschi (Minerva ed). Un saggio con una ricca bibliografia, che esplora l’universo maschile partendo dai casi di femminicidio che tanto ci hanno scosso negli ultimi mesi, per concludere con un’intuizione che sta già facendo discutere: e se per cambiare la nostra cultura non partissimo semplicemente dall’educazione dei maschi, ma dall’educazione proveniente dai maschi stessi? Cioè non sarebbe forse tutto diverso, si chiede l’autrice, se ponessimo fine alla latitanza maschile nei luoghi della prima infanzia?

Più uomini negli asili nido: una provocazione

In effetti di maestri maschi ce ne sono ben pochi in Italia, assenti del tutto educatori nei nidi e alla materna. Ma è stato sempre così? Ci risponde la stessa Federica Benassi, che abbiamo raggiunto per questa nostra intervista.

«Qualche esperimento c’è stato, in particolare nella mia struttura, ma i genitori non hanno gradito: al momento del cambio del pannolino, mamme e papà si irrigidivano. Una reazione più che comprensibile, del resto: si tratterebbe infatti di un cambio di visione radicale che smetterebbe di suscitare stupore se diventasse sistemico. La realtà è che in Italia i ruoli di cura sono appannaggio da sempre delle donne, anche nelle professioni, e anche questo è uno dei tasselli mancanti verso il raggiungimento della parità nel nostro Paese. Dopo questo esperimento fallito di qualche tempo fa, oggi gli educatori maschi vengono relegati al momento del pre o dopo scuola per giocare con i bambini: niente a che fare insomma con l’intimità dell’igiene personale e dell’accudimento fisico».

Perché secondo lei l’insegnamento, anche nei nidi, ad opera dei maschi rivoluzionerebbe il nostro immaginario e aiuterebbe a cambiare la nostra cultura, ancora maschilista?

«Non basta pensare che l’educazione dei maschi possa essere un fattore necessario per contrastare la violenza sulle donne e affermare un mondo più giusto: occorrono modelli educativi e comportamentali che provengano dagli uomini. Ma non sono io la prima a dirlo: è la pedagogista Barbara Capelli in un celebre saggio dal titolo Uomini, educazione e cura, a tracciare la strada maestra. Qui si spiega come sarebbe importante innestare un gran numero di educatori maschi in tutte le strutture per l’infanzia, negli asili nido e in tutte le scuole per bambini e adolescenti. Un altro pedagogista, Andrea Marchesi, nota come dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di primo grado, assistiamo all’evaporazione degli educatori: “una latitanza che risulta scontata, avvolta da un velo di ovvietà” perché “nell’immaginario diffuso i compiti di cura e le funzioni educative sono prevalentemente di competenza femminile e in alcuni casi, pensiamo alla prima infanzia, lo sono in modo esclusivo: educare, nei termini del prendersi cura dell’altro, è un mestiere per donne”. E invece gli uomini che vogliano prendersi cura, i nuovi educatori, possono essere un bene prezioso per formare bambini e ragazzi oltre gli stereotipi, per fornire un sapere diverso, delle pratiche che connettano finalmente, e non separino. Fornire, soprattutto, dei modelli di uomo diversi».

Il valore aggiunto di avere più uomini negli asili nido

Che valore aggiunto può dare l’educatore maschio ai nostri bambini?

«Può iniziare a smantellare la cultura che abbiamo costruito intorno al maschile fatta di sopraffazione e assenza d’empatia e che, insieme ad altri fattori, è responsabile del fenomeno della violenza sulle donne. Nuovi educatori potrebbero diventare dei modelli di virilità fondati sull’ascolto e sull’empatia, modelli in cui riconoscersi, diversi dalle aspettative che la società nutre verso i maschietti, dove chi non aderisce al modello prestazionale ha solo l’alternativa del modello trasgressivo: il maschio esuberante, tra abiti comodi con cui poter essere scomposto, da bambino, e battute volgari e giochi pericolosi, da grande. Gli educatori maschi potrebbero insegnare ai bambini e ai ragazzi a riconoscere certe emozioni, a dargli un nome, per essere così rassicurati: oggi noi non siamo capaci di insegnare ai nostri figli la fragilità, la tenerezza, la frustrazione, il senso di impotenza. Tutte emozioni che poi, se non riconosciute, portano a un senso di frustrazione che spinge a voler sopraffare l’altro».

Nel suo libro, seguendo il pensiero dello psichiatra Paolo Crepet, lei lancia un’altra provocazione, il “figliarcato”, come concausa della violenza sulle donne. Non crede che ancora oggi, soprattutto in Italia, resista il patriarcato?

«Sarò impopolare ma a mio parere il patriarcato esista ancora solo in certe sacche, in certe famiglie ma, nella maggioranza di queste, sono i figli a dettare legge. L’ho visto nella mia esperienza trentennale e lo vedo sempre di più: padri peluche, morbidi nel senso non di accoglienza ma di accondiscendenza, disposti a tutto pur di non discutere col bambino, di non procurargli frustrazione e sofferenza. Padri disposti a uscire da casa alle nove di sera per cercare l’ultimo gioco per la Playstation, padri che non sanno dire di no né imporre regole per quieto vivere. E madri sempre più stressate dal doppio ruolo, dentro e fuori la famiglia. Ho visto piccoli dittatori già a due anni e mezzo, con genitori in balia di capricci e desideri che vengono sempre soddisfatti. È qui che nasce il narcisismo, la mancata frustrazione di saper accettare un No, l’incapacità di gestire un fallimento».

Gli ultimi casi di femminicidio, tra quello di Giulia Tramontano e quello di Giulia Cecchettin, sono in gran parte riconducibili alle famiglie d’origine?

«A mio parere sì, assolutamente. Non chiediamoci più, all’ennesimo femminicidio, perché un ragazzo apparentemente tranquillo è diventato un assassino, o perché un giovane così normale abbia premeditato e poi agito con tale freddezza. Chiediamoci piuttosto com’è la sua famiglia d’origine. Oggi vedo genitori sempre più anziani e accondiscendenti, che depongono le armi al primo conflitto, e figli che hanno tutto e non sono abituati a ricevere rifiuti. Invece sono i “No” che aiutano a crescere, sono il fallimento e la frustrazione che costruiscono e cementano la propria identità. Oggi le famiglie, più che ascoltare i loro ragazzi, mi sembra inseguano l’ansia di primeggiare, provare tutto per dare tutto ai loro figli, quando l’unica cosa che i bambini e i ragazzi vogliono è essere capiti».

La ricerca sull’aggressività genetica dei maschi

Nel libro lei dedica un capitolo all’aggressività “genetica” dei maschi. Di che studio si tratta?

«Si tratta di un lavoro del 2012 di due ricercatori australiani, Joohyung Lee e Vincent Harley del Prince Henry’s Institute di Melbourne. Secondo questa ricerca, a determinare la maggiore aggressività degli uomini sarebbe un gene denominato Sry che si trova nel cromosoma Y, presente quindi solo nel genere maschile. Il gene Sry ha numerosi compiti tra cui regolare la crescita dei testicoli in fase prenatale. Pertanto ha un ruolo determinante nello sviluppo della “mascolinità”. Come tutti i geni, poi, serve nella produzione di specifiche proteine, in questo caso neurotrasmettitori tra cui l’adrenalina, individuata anche in diverse parti dell’organismo come cuore muscoli e polmoni. Quindi proprio questo gene determinerebbe la capacità maschile di rispondere allo stress inviando segnali ai diversi organi, come respiro affannoso e certi movimenti muscolari, che preludono a una risposta aggressiva. La teoria fa ancora molto discutere perché da un alto ha aperto la strada alla comprensione di alcune malattie su base genetica, dall’altra potrebbe portare a una sorta di giustificazione innocentista di certi comportamenti violenti».

Quindi quanto agisce l’ambiente, e quanto la genetica, nel crescere un maschio violento?

Oggi si indaga ancora sull’origine dei comportamenti narcisisti, i cosiddetti sociopatici, come Alessandro Impagnatiello, per intenderci. La dialettica è tuttora in atto tra chi evoca fattori genetici, almeno come concorrenti, e chi ambientali. Nel frattempo si è osservato che esistono statistiche sull’ereditarietà della sociopatia: dal 40 al 60 per cento dei casi i comportamenti narcisistici e sociopatici in genere sono ereditari. Ma al disturbo antisociale di personalità risultano anche connesse diagnosi infantili di disturbo oppositivo-provocatorio, di deficit d’attenzione e iperattività, e i maschi – dicono le ricerche – hanno più probabilità di ricevere diagnosi di questo tipo».

Quale risvolto sociale potrebbe avere questa ricerca?

«Questa ricerca proporrebbe una maggior partecipazione delle donne alla gestione della società e della cosa pubblica, proprio perché la componente maschile si è mostrata fragile nelle situazioni di stress».

Che ruolo potrebbe avere la scuola nella prevenzione della violenza?

«La scuola deve aggiornarsi, invece ciò a cui punta è seguire – e finire – il programma. In Svezia per esempio si dedica un’ora alla settimana all’empatia: a turno i bambini espongono i propri disagi e gli altri ascoltano. In questo modo si impara a riconoscere e accettare anche le emozioni che fanno stare male, in se stessi e nell’altro: dandogli un nome, si argina quell’aggressività che nei bambini e nei ragazzi prende poi la forma del bullismo e della violenza in genere».

Gli sportelli d’ascolto nelle scuole stanno funzionando, non sono sufficienti?

«Non bastano. Serve una programmazione anche per questo. Nei nidi e nelle materne per esempio gli sportelli sono appaltati a cooperative che non conoscono i casi: la pedagogista che viene una volta al mese non può basarsi sull’osservazione del momento per riconoscere un problema e poterlo affrontare. Dovrebbe esserci una persona adibita a questo, tutto l’anno, sempre. In questo modo il sostegno sarebbe strutturale e quindi concreto».