Prendo il telefono. Guardo l’anteprima del messaggio che ho appena ricevuto. Lo riposo pensando che risponderò più tardi. «Sì, ma che ore sono?» mi chiedo. Con stupore devo constatare che nonostante abbia appena guardato il monitor del mio smartphone, non lo so. Ogni volta che si manifesta questa mia sbadataggine, quando guardo un film e sento il bisogno di fare scrolling di contenuti di cui mi importa ben poco, mi chiedo come la mia attenzione si sia potuta frammentare in questo modo. Le mie facoltà mnemoniche resistono: saranno gli anni spesi a memorizzare le desinenze del greco antico, sarà grazie al latinorum. O forse sarà che il mio primo cellulare (senza internet) l’ho avuto alla scuola media?

Ero già alle superiori quando sono arrivati Facebook, Whatsapp e Instagram. Quando ci penso non posso fare a meno di domandarmi cosa ne sarebbe ora di me se mi fossi approcciata ai device o ai social media prima. Penso ai bambini che oggi imparano ad usare lo smartphone o il tablet prima della penna, che si trovano perfettamente a loro agio registrando video che finiranno nel feed dei loro genitori. Che ne sarà di loro? La generazione ansiosa, Come i social hanno rovinato i nostri figli di Jonathan Haidt (Rizzoli), in libreria dallo scorso 10 settembre, prova a rispondere.

La generazione ansiosa, Jonathan haidt
La generazione ansiosa, Come i social hanno rovinato i nostri figli, Jonathan Haidt (Rizzoli, 2024)

Un libro per genitori, ma non solo

La generazione ansiosa di Jonathan Haidt, uno degli psicologi più autorevoli al mondo, arriva, tradotto, anche nelle librerie italiane. Il volume, già bestseller del New York Times, aveva già fatto molto discutere dopo la pubblicazione in lingua originale lo scorso marzo. Perché? Haidt indaga il collasso della salute mentale dei bambini e degli adolescenti che sarebbe una disastrosa conseguenza del passaggio da un’infanzia basata sul gioco a una basata sul telefono. Il lockdown imposto dalla pandemia, l’avvento dei social media sono indubbiamente fattori rilevanti nel peggioramento della salute dei nostri ragazzi, ma non sono sufficienti. L’autore risale, infatti, agli anni Ottanta: è allora che si è verificato un cambiamento nella genitorialità. La paura dei pericoli del mondo ha provocato una riduzione delle attività svolte all’esterno e gli adolescenti hanno iniziato a trascorrere più tempo giocando ai videogiochi o guardando la tv.

È la dimensione del gioco quella più sacrificata. Questa, grazie a una piccola dose di rischio, insita nella sua natura, porta il bambino ad acquisire maggiore consapevolezza di sé e fiducia nella sua capacità di agire nel mondo. Se il tempo trascorso giocando è ridotto a discapito di quello trascorso utilizzando i device, le conseguenze non tardano ad arrivare. È la Generazione Z, quella dai nati dopo il 1995, la prima ad aver vissuto la pubertà con in tasca un portale verso una realtà eccitante, ma ancora poco studiata. Poi è stato un crescendo, a tal punto che l’autore de La generazione ansiosa parla di una vera e propria «riconfigurazione» dell’infanzia che ha influenzato lo sviluppo sociale e neurologico di bambini e adolescenti. E ora che gli effetti del precoce utilizzo di smartphone e social media sono sotto gli occhi di tutti, che fare?

Ne abbiamo parlato con Serena Mazzini, social media strategist e docente di Teoria e metodo dei mass-media. E no, non è un problema che i genitori possono risolvere da soli.

La generazione ansiosa, una lettura necessaria

Lei definisce questo libro come il più importante a tema social pubblicato negli ultimi 20 anni, perché?

«La generazione ansiosa di Jonathan Haidt è un libro divisivo. Sta raccogliendo commenti entusiasti così come dure critiche dalla comunità scientifica. Questa ritiene che l’autore, incolpando gli smartphone per l’“epidemia di malattie mentali adolescenziali”, abbia semplificato eccessivamente il problema. Io invece, pur non condividendo in toto le sue idee, credo che questo libro sia estremamente urgente. Ci aiuta a riflettere su temi fondamentali che influenzano la nostra vita quotidiana. In questo caso, il libro è particolarmente significativo soprattutto per i genitori: siamo davvero sicuri che un’infanzia mediata da device tecnologici non causi alcun tipo di danno ai nostri figli?

Oggi si parla sempre più spesso di “iPad Kids”. C’è addirittura un trend su TikTok: mostra come questi bambini, esposti alla tecnologia fin dai primi mesi di vita, siano estremamente nervosi quando i genitori tolgono l’iPad dalle loro mani. Haidt introduce il concetto di “infanzia basata sul telefono”: questo stile di vita favorisce davvero lo sviluppo dei bambini o rischia di ostacolarli nei momenti cruciali, come la socializzazione? Se le loro emozioni vengono costantemente mediate da uno schermo, cosa accade?».

Un problema collettivo

Quali potrebbero essere le conseguenze di un’infanzia vissuta con lo smartphone?

«Potremmo renderli dipendenti dal flusso continuo di dopamina che deriva semplicemente dallo scrolling, compromettendo la loro capacità di gestire stati emotivi complessi come l’ansia e riducendo quella che Haidt definisce la loro resilienza emotiva? Queste sono le domande che mi sono posta leggendo il libro. Credo che dovrebbero diventare un punto di riflessione collettivo. Dovremmo chiederci, come società, se crescere in un mondo iperconnesso faccia davvero bene ai bambini o se stiamo rischiando di comprometterne lo sviluppo emotivo e sociale. La questione ormai va oltre il singolo individuo o il singolo nucleo famigliare: riguarda il benessere generale della prossima generazione e il tipo di futuro che stiamo costruendo per loro».

Approfondire il disagio e l’ansia dei ragazzi: i libri da leggere

Ci sono altri testi che lei considera necessari per un genitore o un adulto che voglia capirci qualcosa in più?

«Per comprendere quanto i social siano pervasivi e influenzino le nostre vite consiglio Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff. Il libro esplora come le grandi aziende tecnologiche sfruttino i nostri dati personali per rivenderli a terzi e trarre profitto; descrive perfettamente come le piattaforme operino all’interno di un sistema economico basato sulla sorveglianza di ciò che facciamo online.

Ma anche La tua faccia ci appartiene di Kashmir Hill, che indaga il potere e i rischi della tecnologia di riconoscimento facciale. Lo fa attraverso la storia di Clearview AI: un’azienda che ha raccolto miliardi di immagini da social media e altri siti. Lo scopo era creare un database di volti accessibile a enti governativi e aziende. Infine, Extremely Online di Taylor Lorenz – una delle giornaliste che si occupa dei temi social che più ammiro – che descrive l’evoluzione della cultura di Internet. Si concentra sull’influenza dei social media e delle community online nel plasmare la società moderna».

La generazione ansiosa: un libro molto discusso

Una critica che viene mossa a Haidt è quella di aver scambiato la causa con l’effetto. Quindi i ragazzi non soffrirebbero maggiormente di depressione e disagi psicologici perché si è intensificato il loro utilizzo dei social, ma questi passerebbero più tempo usando lo smartphone perché in loro c’è un malessere precedente. Lei che ne pensa? È possibile che il disagio dei giovani sia legato ad altre cause?

«Mi trovo d’accordo con alcune delle critiche che sono state mosse ad Haidt: la questione della salute mentale degli adolescenti, così come quella degli adulti, è complicata e non può essere ridotta a una spiegazione univoca. Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a una serie di eventi destabilizzanti: crisi economiche che hanno reso precario il futuro lavorativo, cambiamenti climatici che alimentano ansie globali, guerre, una pandemia globale e cambiamenti sociali e politici che hanno interessato gran parte del mondo. Tutti questi fattori hanno certamente contribuito ad alimentare un senso di incertezza e insicurezza che, per molti, si traduce in malessere psicologico. Se poi guardiamo attentamente i dati di Haidt, vediamo come la salute mentale dei più giovani sia peggiorata soprattutto durante la pandemia, quando le interruzioni didattiche hanno ostacolato lo sviluppo sociale ed emotivo degli studenti e il loro progresso accademico».

Un cane che si morde la coda

Cosa potrebbe essere successo durante la pandemia?

«In un contesto simile, l’uso dei social potrebbe essere un tentativo di evasione o una ricerca di compensazione per affrontare un mondo sempre più difficile da comprendere e gestire. L’iperconnessione digitale non sarebbe quindi la causa principale del loro disagio, ma uno strumento attraverso il quale i giovani cercano di lenirlo. Il problema, però, è che può diventare un cane che si morde la coda: se da un lato non possiamo ignorare l’utilità degli smartphone per adolescenti e adulti (ormai sono mappe, radio, romanzi, televisori, strumenti didattici), dall’altro è essenziale riconoscere che proprio durante la pandemia piattaforme estremamente coinvolgenti come TikTok, basate non più sulla costruzione di reti ma sull’intrattenimento, si sono espanse rapidamente».

Facebook e TikTok a confronto

Su che cosa si basano le critiche mosse all’autore?

«Le critiche rivolte ad Haidt si basano principalmente su studi accademici che hanno analizzato piattaforme come Facebook, la cui interazione è molto diversa da quelle attualmente più diffuse. Facebook era pensato per mantenere i contatti con le persone della tua vita, mentre TikTok crea un flusso infinito di contenuti basati su ciò che ci piace o ci fa arrabbiare, con l’obiettivo di tenerci incollati allo schermo il più a lungo possibile. Questa fruizione così immersiva e frammentata può creare dipendenza. Che tipo di danno può causare a noi e ai nostri bambini? In così poco tempo, è difficile valutarne con precisione gli effetti».

Social media e bambini

Come e perché ha iniziato a studiare i fenomeni legati all’influenza dei social sui più piccoli?

«Sono una social media strategist da oltre 10 anni e, da qualche anno, sono anche una docente. Per lavoro, mi trovo ogni giorno ad analizzare milioni di dati e a cercare di razionalizzare i contenuti che vediamo sulle piattaforme. Cerco di prevedere quali saranno i futuri trend. Durante la pandemia mi sono resa conto che i contenuti con protagonisti i bambini, soprattutto su TikTok e Instagram, stavano aumentando. Probabilmente perché in quel momento queste piattaforme erano utilizzate non solo come intrattenimento ma anche per cercare delle connessioni umane. L’aspetto interessante era che le metriche, come visualizzazioni e interazioni, erano altissime per quei contenuti».

Che cosa ne ha dedotto?

«Ho iniziato a cercare di interpretare i dati, scoprendo che l’esposizione dei minori può rivelarsi un business estremamente redditizio per molte famiglie – anche comuni, non solo quelle degli influencer – che hanno deciso di raccontare la loro esperienze genitoriali sui social. So cosa si nasconde dietro ogni contenuto: ci sono innumerevoli prove, riprese ripetute decine di volte, e momenti “spontanei” che vengono ricreati appositamente per la telecamera. Così ho iniziato a chiedermi: quali effetti può avere tutto ciò su questi bambini? Come possono sentirsi nel dover vivere ogni gesto naturale come fosse una performance?».

I 4 consigli di Haidt ne La generazione ansiosa

Haidt dà quattro consigli per migliorare la situazione: vietare l’utilizzo dei social media prima dei 16 anni e lo smartphone prima del liceo; non usare il cellulare a scuola e i giochi senza la supervisione di un adulto. Per qualcuno si tratta semplicemente di consigli che già solo il buon senso dovrebbe suggerire. Anzi, c’è una parte di GenZ – me compresa – i cui genitori hanno fatto proprio quello che Haidt suggerisce, poi che cosa è andato storto secondo lei?

«Gli smartphone sono ormai parte integrante della nostra vita quotidiana per comunicare, apprendere, intrattenersi, lavorare e informarsi. È difficile limitarne l’uso. Nel caso dei genitori è ancora più complesso. Viviamo in un contesto socio-economico in cui le famiglie sono spesso sotto pressione, costrette a bilanciare lavoro, vita domestica e la gestione dei figli senza un supporto adeguato. Durante la pandemia, molte di queste problematiche si sono acuite».

Perché?

«I genitori si sono trovati a dover essere produttivi, gestendo allo stesso tempo i figli senza aiuti esterni o risorse sufficienti. Non avevano nemmeno il tempo mentale per razionalizzare quello che stava succedendo attorno a loro. In questo contesto, l’uso degli smartphone come strumento per distrarre o intrattenere i bambini diventa comprensibile, se non inevitabile. È difficile biasimare i genitori per queste scelte e credo sia importante sottolineare che questo tema non può essere trattato solo come una responsabilità individuale. È necessario capire collettivamente come creare delle reti sociali che ci permettano di mettere in atto delle politiche di cura nei confronti dei nostri bambini, andando a colmare una mancanza di politiche di supporto sociale che possano alleviare il carico sulle famiglie».

L’educazione digitale è in primis un problema degli adulti

Ne La generazione ansiosa Haidt individua quattro danni provocati dall’utilizzo intensivo di smartphone e social media sui giovani: privazione del sonno e della vita sociale, frammentazione dell’attenzione e dipendenza. Ora, l’impressione è che anche una buona parte di adulti presenti gli stessi sintomi, verrebbe da chiedersi se non siano loro i primi a dover rieducarsi a un utilizzo diverso dei propri dispositivi. Non a caso, Haidt sottolinea l’importanza dell’esempio dei genitori per i figli…

«Sicuramente è importante promuovere una maggiore consapevolezza tra i genitori perché sono loro a modellare il comportamento dei più piccoli e dovrebbero essere loro a stabilire delle regole rispetto all’uso della tecnologia. Credo sia necessario incoraggiare un’educazione digitale che inizi proprio da loro e che sia sostenuta a livello politico, sociale e culturale permettendo ai genitori di essere più consapevoli dei rischi e delle opportunità legati all’uso di smartphone, social media e internet, non solo per proteggere i bambini, ma anche per dare l’esempio su come utilizzarli in modo sano e responsabile».

Perché è importante partire dai genitori?

«Permettere ai genitori di sviluppare competenze digitali e di comprendere le implicazioni sulla privacy e sull’attenzione, adottando pratiche di utilizzo equilibrato della tecnologia nella propria vita, è indispensabile. Serve a creare un ambiente in cui i bambini possano imparare a relazionarsi con la tecnologia in modo consapevole, critico e creativo. Limitare semplicemente l’uso degli smartphone non credo sia utile se non accompagnato da discussioni che coinvolgano tutti i membri della famiglia sugli aspetti positivi e negativi del digitale. Gli smartphone ci allontanano dall’ambiente circostante e dalle persone a noi più vicine, rendendoci, come afferma la sociologa Sherry Turkle, “per sempre altrove”. È fondamentale che ogni nucleo familiare, così come la società nel suo insieme, si uniscano per ricostruire un mondo che metta al centro una dimensione di cura collettiva e di connessione autentica».

La generazione ansiosa: il paradosso dei genitori iperprotettivi

Sembra che la questione della genitorialità sia quella più urgente da affrontare. Ne La generazione ansiosa Haidt parla di iperprotezione dei genitori verso i figli. Ma questa si manifesta soltanto nel mondo reale, mentre è pressoché assente in quello digitale. Viviamo il paradosso della geolocalizzazione dei ragazzi, mentre i volti dei bambini appena nati approdano su Instagram, tra l’altro senza alcuna possibilità di scelta e autodeterminazione. Per alcuni è questione di business e denaro, ma per tante persone comuni no. Dobbiamo farne una questione di mero narcisismo o è inconsapevolezza?

«Non credo sia corretto parlare di narcisismo. Semplicemente ognuno di noi, tramite la fruizione delle piattaforme, ha inconsciamente interiorizzato delle pratiche social(i). Condividere gli aspetti più intimi e privati della propria vita fa semplicemente parte delle regole del gioco che i social hanno scritto per noi. Se è vero che per alcuni influencer e personaggi pubblici la condivisione di contenuti con al centro i propri figli è spesso legata a interessi economici e di immagine, per la maggior parte delle persone comuni si tratta di una questione più complessa e meno consapevole.

Credono di avere il controllo su ciò che condividono. Ma spesso ignorano il potenziale rischio legato alla diffusione non autorizzata e alla manipolazione delle immagini da parte di terzi. Non considerano le possibili ripercussioni sulla privacy e l’autodeterminazione dei bambini in futuro. La gestione dell’immagine digitale diventerà una questione delicata per i figli. Questi potrebbero trovarsi con una traccia online creata senza il loro consenso: un limite alla loro capacità di autodeterminare come vogliono essere rappresentati nel mondo digitale».

Le ragazze non stanno bene

Secondo Haidt sono le ragazze quelle che stanno peggio. La fotocamera interna del telefono, i social e i like le sottopongono a una valutazione estetica costante. Ma come glielo si spiega a queste giovani donne che questo tipo di compiacimento non è che una trappola? Che l’esibizione di sè e del proprio corpo continua a incasellarle in quei modelli patriarcali – che nella società vorrebbero la donna madre o seduttrice – che stiamo cercando di smontare?

«Anche in questo caso, bisognerebbe partire dall’educazione. I social media, per come sono stati progettati, alimentano l’insicurezza e la dipendenza da validazione esterna. Ho osservato questo fenomeno in particolare su TikTok. Qui è sempre più frequente trovare ragazzine molto giovani che soffrono di disturbi del comportamento alimentare, in particolare di anoressia nervosa. Richiedono costantemente attenzioni che si trasformano, però, in validazione della loro malattia.

È fondamentale spiegare, non solo alle ragazze ma a tutti i bambini e adolescenti, come la “cultura del like” li renda vulnerabili all’oggettivazione costante e al confronto con immagini manipolate o irrealistiche, che non dovrebbero essere prese come riferimento. I social media perpetuano standard estetici e sociali dannosi, promuovendo una cultura del successo personale e del “se vuoi, puoi”, spesso veicolata da persone esteticamente attraenti, perché questo è il modello che le piattaforme vogliono amplificare. In alcuni documenti interni di TikTok, ai moderatori viene richiesto di “sopprimere i post creati da utenti ritenuti troppo brutti, poveri o disabili per la piattaforma”. Come possiamo permettere che i nostri figli si relazionino in un contesto così impregnato di bias socioculturali?».