Mancano due settimane a Natale e arriva una polemica che riguarda proprio una delle figure più rappresentative, ma soprattutto amate dai più piccoli: Santa Claus, ossia proprio Babbo Natale. A svelare la vera identità di quello che oggi è conosciuto come un simpatico anziano vestito di rosso, con il viso sorridente, l’immancabile cappello in testa e soprattutto tanti regali da distribuire con l’aiuto delle sue renne, ci ha pensato una maestra. Proprio così. È accaduto a Coverciano, in Toscana, ma l’episodio è diventato un caso in tutta Italia.
La maestra e la vera identità di Babbo Natale
Tutto è iniziato quando una maestra di religione del comune alle porte di Firenze (peraltro più famoso per ospitare i ritiri della Nazionale di calcio) ha deciso di dedicare la propria lezione sullo spirito del Natale parlando della storia di San Nicola, ossia proprio il Santa Claus che oggi è noto col nome di Babbo Natale. Come riportato da Repubblica Firenze, la docente avrebbe riportato sul registro di quinta elementare di aver proposto un “Quiz tra i bambini: Babbo Natale esiste o no? Sei rispondono si, sei no, due non lo so”, come da registro elettronico. Molti bambini sarebbero rimasti spiazzati, tornando poi a casa in lacrime da mamma e papà, i quali (senza esitazione alcuna) hanno protestato. Il risultato è che la dirigente scolastica si è vista recapitare una lettera dei genitori con un solo desiderio: fare chiarezza sull’accaduto.
Le proteste dei genitori
«Per noi è stato sbagliato porre la domanda, anche perché affrontare il discorso sulle origini della leggenda vuol dire negare l’esistenza di Babbo Natale nella realtà. Peraltro, non crediamo faccia parte del programma di istruzione. Questo secondo noi è un trauma, soprattutto in questo periodo dell’anno in una scuola primaria. Che i bambini credano o no all’esistenza di un uomo che gira il mondo su una slitta a portare regali, magari vogliono continuare a vivere questa illusione, scrivere la letterina e sentire la magia: non è giusto privarli di questa magia», hanno affermato alcune famiglie.
Poco dialogo tra scuola e famiglie
«In questo caso credo che i genitori non abbiano tutti i torti, per un motivo in particolare: non trattandosi di un argomento che fa strettamente parte del programma scolastico, probabilmente sarebbe stato opportuno che l’insegnante informasse le famiglie che avrebbe voluto affrontarlo in classe, in modo da far emergere eventuali criticità», spiega Maria Angela Grassi, presidente nazionale dell’Associazione Nazionale Pedagogisti (ANPE). «In questo modo si sarebbe anche potuta trovare una modalità per parlare di un argomento che fa comunque parte delle tradizioni legate al Natale, che siano religiose o laiche, il tutto senza interferire con la fantasia dei bambini», aggiunge la pedagogista.
Un altro caso analogo a Genova
Quanto accaduto a Coverciano si è ripetuto anche a Genova, dove gli alunni ai quali è stata rivelata l’inesistenza di Babbo Natale frequentano la quarta elementare. La loro insegnante, che vanta 40 anni di esperienza, si è però difesa spiegando di averli voluti guidare verso una riflessione più matura proprio in ragione della loro età, cioè l’avvicinarsi della pre-adolescenza. «Si tratta pur sempre di un argomento delicato che ha a che fare con le competenze della scuola rispetto a quelle della famiglia in tema di educazione. Considerando poi l’età degli alunni, ancora a cavallo tra infanzia e pre-adolescenza, non va dimenticato che alcuni, pur iniziando a sospettare della non esistenza di Babbo Natale, amano ancora crederci. In ogni caso il problema è più ampio e ha a che fare con la non comunicazione tra scuola e famiglia», osserva Grassi.
Che fine ha fatto il patto scuola-genitori?
«Si parla molto del patto educativo tra scuola e famiglia, che è anche tenuta a firmarlo, ma nei fatti non c’è dialogo. Negli anni è diminuita la partecipazione da parte dei genitori alle attività scolastiche, come in occasione del Natale, così come sono meno le occasioni di scambio vero. Si privilegia la tecnologia, che può essere utile da molti punti di vista, ma anche quando si tratta di comunicare con gli insegnanti, i genitori oggi devono prendere appuntamento online e spesso le udienze sono via web e di una durata prestabilita di pochissimi minuti. La conseguenza – spiega la pedagogista – è che si sono creati due monoliti, la scuola e la famiglia, che non dialogano a sufficienza tra loro».
Famiglie e insegnanti: più rispetto reciproco dei ruoli
Non si tratta dell’unicità criticità: «Temo che oggi ci sia un’invadenza in ruoli non propri, da parte dei genitori e talvolta degli insegnanti. Interessarsi al figlio non significa contestare il docente nei programmi o quando mette un brutto voto, ma partecipare all’attività educativa – prosegue Grassi – Credo che oggi occorra soprattutto riconoscere il ruolo, l’autorità e l’autorevolezza dell’altro. Il problema nella scuola è che c’è un reciproco disconoscimento da parte dei genitori e degli insegnanti, della rispettiva funzione educativa che svolgono e che dovrebbero svolgere, in sinergia». In assenza di dialogo vero può accadere quello che succede anche in una coppia che non si parla: «Chi sta nel mezzo, come i bambini e i ragazzi, approfitta dello spazio di conflitto che si crea», osserva Grassi.
A chi spetta l’educazione (o il racconto della verità)
Nel “Babbo Natale-gate” ci si è chiesti a chi spettasse il compito di svelare la verità sulla sua esistenza o meno, ma la questione ha a che fare con il tema più ampio dell’educazione: «Quello prevalente è certamente della famiglia, che inizia prima e rimane primario – sottolinea la presidente ANPE – Ma non dimentichiamo che qualunque gesto di un insegnante, a prescindere dalla sua materia di competenza, ha anche una valenza educativa e formativa, nel bene o nel male. L’educazione, quindi, spetta a entrambi gli attori – genitori e docenti – per questo la famiglia su certi temi dovrebbe essere consultata, in modo da agire in maniera sinergica e armonica».
L’educazione (anche affettiva) a scuola
Degli aspetti emotivi dell’educazione, però, si è discusso di recente, dopo il caso di Giulia Cecchettin e con la proposta di inserire nel percorso scolastico anche l’educazione affettiva: «Se ne è parlato, anche e soprattutto con la proposta del ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, di prevedere lezioni in classe, affidate però solo a psicologi o influencer. Credo che sia un errore escludere i pedagogisti da questi percorsi. Limitarsi agli psicologi rischia di “sanitarizzare” le situazioni, mentre gli influencer non hanno una preparazione adeguata quando si parla di educazione e formazione – sottolinea Grassi – Servono équipe multidisciplinari, che non stiano in maniera permanente a scuola, ma siano a disposizione anche per agevolare quel dialogo scuola-famiglia di cui si parlava. Basterebbe prendere esempio da diverse realtà positivi, come in Emilia Romagna».