“Auto, in Italia 300 mila posti a rischio”, “Onu: nel mondo si temono 50 milioni di disoccupati”… Ogni giorno siamo tempestati dalle drammatiche cifre sulla crisi economica. Sono sempre più numerosi gli italiani che lavorano in aziende dove i conti vanno male, e dove si minacciamo (o si mettono in atto) consistenti tagli al personale. Nell’incertezza, in ufficio o in fabbrica aumenta l’ansia. E si fa avanti il nemico peggiore: lo stress. Un male sociale che colpisce anche chi ha un posto sicuro, ma subisce le ingiustificate ire di un capo collerico o la tensione tra colleghi che si fanno la guerra, oppure un’eccessiva mole di lavoro. Come si fa, allora, a non cadere nella trappola del “vedo tutto nero”? «Conservando il senso della realtà e l’autostima» risponde Daniela Lucini, specialista in Psicologia clinica e internista all’università di Milano, che sul tema ha appena pubblicato un saggio: Super stress, come superare la crisi senza che il tuo lavoro ti rovini la salute (Rizzoli).
Professoressa, lo stress è uno stato d’animo o una malattia?
«È uno squilibrio tra i nostri desideri più profondi e le risorse per realizzarli. Se l’azienda nella quale lavoro decide una ristrutturazione, io non posso fare nulla, mi sento impotente. Ed ecco che scatta lo stress, e con lui ansia, aritmia cardiaca, disturbi alla digestione, spossatezza, insonnia, e, nelle situazioni più gravi, depressione e persino infarto. Lo stress da lavoro colpisce il 28 per cento degli europei, causa almeno la metà delle assenze in ufficio e costa alla Ue 20 miliardi di euro l’anno».
Da una decina d’anni lei collabora come psicologa in grandi multinazionali. Quanto spesso un dipendente stressato bussa alla sua porta?
«Sempre più di frequente. Sono persone che temono di perdere il lavoro, anche se brave e qualificate, perché l’azienda ha difficoltà di mercato. Oppure impiegati e manager di una certa età che, in seguito a una serie di ristrutturazioni, hanno visto cambiare completamente la ditta, le persone che vi lavorano, e non riescono ad adattarsi. Non sono stati licenziati, ma si sentono dei sopravvissuti».
Come si fa a uscire dal tunnel?
«A volte basterebbe cambiare la prospettiva da cui si guardano le cose».
In che senso?
«Mi spiego con l’esempio di un caso reale: una donna di 48 anni, separata con figli, ha dovuto improvvisamente occuparsi anche della madre malata. Era sfinita e si chiudeva in se stessa. Continuava a chiedere permessi dal lavoro per motivi familiari, ma senza spiegare il perché. Il capo si arrabbiava, lei pure e trattava male i colleghi. Alla fine l’ufficio era diventato un incubo, e lei era in balia dell’emotività, convinta che la causa di tutti i suoi mali fosse l’azienda. In modo irrazionale, aveva deciso di andarsene e dedicarsi alla madre. Un suicidio, anche dal punto di vista economico».
Come l’ha dissuasa?
«Con lei ho analizzato quali fossero i suoi bisogni reali: curare la mamma, certo, ma anche avere un lavoro per mantenere se stessa e i figli. Le ho proposto di mettersi nei panni dei colleghi: era sempre scorbutica, apparentemente senza ragione. Se avesse confidato loro i suoi problemi o almeno lo avesse fatto con il capo, sarebbe stato più semplice trovare un accordo. Alla fine si è convinta, ha detto in ufficio che sua madre era grave in ospedale, ha ottenuto un orario flessibile, e si è riconciliata col mondo».
Lavorare troppo fa ammalare?
«Può accadere persino ai giovani, pieni di energia. Ricordo una 30enne in gamba che, dopo una ristrutturazione aziendale, si è trovata a sbrigare da sola un’enorme quantità di incarichi. Ha stretto i denti, sperando in una promozione. Dopo un anno, però, la promozione non è arrivata. Lei desiderava un figlio, ma con tutto quel lavoro non c’era spazio per la maternità. Le due aspirazioni sono entrate in conflitto. La ragazza era sempre più demotivata. L’efficienza ha cominciato a risentirne e i capi glielo hanno fatto notare. A quel punto, è stata malissimo».
Cos’ha deciso, alla fine?
«Di avere un bambino. Ha capito che quella era la priorità, si è tranquillizzata. Ha ridimensionato le aspettative sul lavoro. Da mamma, ha continuato a svolgere le stesse mansioni, ma con minore ansia e perfezionismo».
Ha mai avuto vittime di mobbing tra i suoi pazienti?
«Poche. Un caso, però, mi ha colpito. Quello di un tecnico specializzato, 53 anni, serio, competente. Per motivi incomprensibili, hanno cominciato a cambiargli mansioni, dandogli incarichi sempre più vaghi. Era disorientato, fino a quando si è accorto che i suoi compiti originari erano stati assegnati a un giovane con esperienza all’estero. Ha cominciato a non dormire, aveva la pressione alle stelle. Così abbiamo fatto l’analisi dei suoi punti di forza e dei suoi limiti. Aveva 53 anni, è vero, ma una grande professionalità. Gli ho consigliato di fare dei colloqui: è stato assunto subito da una ditta concorrente».
Fortunato!
«Non tutti lo sono, soprattutto se non credono in se stessi. Ricordo il dipendente che alle prime avvisaglie di crisi aziendale si è abbandonato all’ansia, e ha “deciso” che sarebbe stato licenziato insieme a metà stabilimento. Ne era così convinto che ha cominciato a lavorare male, a rimanere a casa anche per un banale raffreddore. Alla fine l’hanno cacciato davvero. Lo stress può costruire fantasmi che non esistono e ti spinge a fare autogol».
A volte però non c’è niente da fare: vieni cacciato solo perché hai 60 anni e costi più di un giovane.
«È vero. L’importante è esserne coscienti. Non pensare mai “è colpa mia”. I dipendenti più anziani sono anche i più tutelati, grazie ai prepensionamenti. Ma se non capiscono che il loro valore non è in discussione, soffrono più degli altri. È tremendo chiudere la carriera con la sensazione di aver fallito».