Il count down in vista della fine della scuola è già iniziato e ormai il tempo stringe: gli studenti temono le pagelle e per qualcuno è tempo di esami. E l’ansia cresce, sia per i voti, sia perché a volte bambini e studenti risentono anche delle pressioni dei genitori. Ma è giusto caricare di tanto stress i giovani e i loro genitori?
Tempo di voti e pagelle
«Un po’ di ansia è normale e non è necessariamente uno stato d’animo negativo: prima di un evento importante si prova sempre un’emozione molto forte. Il problema sorge quando si fatica (troppo) a controllarla», conferma la pedagogista Giovanna Giacomini, formatrice e ideatrice del paradigma pedagogico Scuole Felici®. La sua esperienza, maturata proprio con alunni e studenti, le permette di dare un primo consiglio, che è valido per piccoli e grandi: «Il pensiero deve concentrarsi sull’idea di aver fatto del proprio meglio. Certo, a volte non basta, soprattutto se ci si riduce all’ultimo».
Il primo passo: incanalare le emozioni
«Per i più piccoli è importante il supporto dei genitori nell’imparare a incanalare le emozioni. In questo è fondamentale costruire un dialogo con i figli, parlando di ciò che crea loro ansia anche nei mesi precedenti le battute finali dell’anno scolastico. Poi è utile bilanciare i tempi della giornata e della settimana, in modo da non arrivare “stressati” agli ultimi giorni di test e interrogazioni, e permettendo ai giovani di trascorrere il giusto tempo all’aria aperta, a giocare o praticando sport – suggerisce Giacomini – Per i più grandi può essere utile anche la meditazione profonda, che comunque è praticabile anche dall’età della primaria con ottimi risultati», dice la pedagogista.
Pagelle: se anche i genitori sono sotto stress
Spesso, però, sono i genitori i primi a sentirsi sotto pressione per i figli: «La ricetta per eccellenza sarebbe proprio di evitare che madri e padri trasmettano i loro stati d’animo ai figli. I genitori dovrebbero fare un po’ di autoriflessione anche a proposito delle parole che usano, oltre che nei confronti del loro atteggiamento. Per esempio, una frase da non dire mai è “Mi hai deluso”, magari di fronte a voti non eccellenti. È la prova di come spesso ci si identifica con i figli, confondendosi con loro: se anche un genitore provasse questo sentimento o un senso di tristezza, non dovrebbe trasmetterlo al figlio o alla figlia. Piuttosto dovrebbe lasciare spazio al loro, facendosi raccontare che emozioni sentono», spiega la pedagogista.
Come si aiutano gli studenti
Il dialogo, quindi, è fondamentale, ma una volta arrivata la pagella, come si aiutano i figli a superare eventuali frustrazioni? «Premesso che ogni bambino ha le sue peculiarità, occorre una strategia adatta e soprattutto concreta, se sono piccoli. Per esempio, si può rappresentare la pagella con una torta, con fette di colori differenti a seconda che si tratti di risultati positivi o da migliorare – prosegue l’esperta – I bambini hanno bisogno di pensare al futuro, più che al passato e quindi occorre concentrarsi su come trovare soluzioni nuove e creative per superare l’ostacolo. Che però non deve essere solo il voto».
Voti e valutazioni sono due cose diverse
Da molti anni, infatti, si dibatte ciclicamente sull’utilità o meno di voti e giudizi in pagella. «Questo è un tema molto ampio, anche perché c’è molta confusone tra voto, giudizio e valutazione – premette Giacomini – Il voto è come una foto: scatto il momento, ma deve essere frutto di una valutazione, che invece è un processo di analisi su un periodo più lungo. Non è di per sé negativo, ma se è accompagnato da una valutazione, che fornisce a bambini e ragazzi un feedback su ciò che hanno fatto. Il voto, quindi, si accetta, ma va insegnato che è solo il passo finale del loro percorso». Da qualche anno, però, i voti sono stati sostituiti con giudici, soprattutto alla scuola primaria.
Attenzione ai giudizi!
«I giudizi vanno accompagnati da più cautela, perché possono essere rischiosi, specie se sono rivolti alla persona e non al suo lavoro. Per esempio, spesso si dice “Sei stato bravo”, ma sarebbe più corretta l’espressione “Hai svolto correttamente questo compito”. Un conto, quindi, è l’operato della persona, un conto è lei stessa», sottolinea Giacomini, che aggiunge: «Un giudizio dovrebbe consistere in una breve frase che spieghi cosa è stato svolto meglio e cosa dovrebbe essere migliorato o approfondito». Il problema è che spesso i giudizi adottati nelle scuole sono poco chiari, persino agli insegnanti stessi, oltreché per ai bambini e ai genitori, «specie se questi sono magari stranieri e hanno difficoltà con la lingua».
La competitività: quando è positiva
«Sicuramente la società attuale non è di grande aiuto. Oggi viviamo in un’epoca dove, la performance è tutto. La società ci ripete a gran voce che dobbiamo essere performativi e non contempla tempi morti», spiega poi Giacomini, che chiarisce: «La competitività in sé non è negativa, purché sia rivolta verso se stessi, cioè se ha lo scopo di migliorarci. È ciò che avviene anche nel mondo del lavoro, quindi ben venga insegnarla ai bambini, ma in quest’ottica. Non ha senso, invece, stimolare la performance tra giovani, perché ciascuno è diverso da un altro e ha bisogni diversificati. La competitività, quindi, deve mirare ad aumentare le singole competenze».
Se anche le attività extra-scolastiche diventano “stressanti”
«I nostri giovani sono impegnati in tante attività extra-scolastiche» spiega ancora l’esperta – È giusto che ci siano, ma vanno scelte in linea con i gusti dei figli e bilanciate con il tempo libero, di cui tutti noi abbiamo bisogno, specie i più piccoli». Il ruolo dei genitori non dovrebbe comunque mai venire meno: «Ci vogliono scambio e comprensione, sostegno nella perseveranza e nell’impegno che i figli mettono in ogni attività, anche il tifo (sano!) se si tratta di sport. Ma senza esagerare, scendendo in campo come se si affrontasse una battaglia e soprattutto accettando anche eventuali sconfitte», insiste Giacomini.
Fallire è umano
Sempre più spesso si parla di fragilità, specie nei giovani, che possono manifestare disagio in vario modo e sempre più di frequente con segnali di minor salute psicologica. «Io sono una grande sostenitrice del fallimento, inteso però come la necessità per ripensare al proprio benessere, magari cambiare strada (scuola o sport) senza essere influenzati da giudizio o modelli altrui, senza inseguire un ideale di perfezione, ma affrontando anche una sconfitta – conclude Giacomini – Attenzione, però, che questo non diventi un pretesto per “mollare”: è lecito cambiare ma occorre senso di responsabilità. Certo, a parole è più semplice, nei fatti si tratta di un percorso a volte molto faticoso».