A riproporre il tema è l’associazione “Evita Peron” che sta raccogliendo firme per garantire un reddito alle donne che si occupano della casa, ma soprattutto per le mamme che sceglierebbero di crescere i figli in prima persona. Molte lettrici, tramite la nostra fanpage di Facebook, si sono dette d’accordo:
«Sarebbe un salto avanti! Perché non si darebbe più per scontato e sterile l’impegno di tante donne verso la famiglia!» Grazia Taveri
Soprattutto chi il lavoro l’ha perduto contro la propria volontà:
«Lavoravo ma quando ho detto di essere incinta mi hanno licenziato e da 8 anni sono a casa. Se le aziende non discriminassero le donne con figli sarebbe diverso ma non lo è. Quindi io sono a favore dello stipendio per le casalinghe». Simona Genuardi
Ma il reddito risolverebbe il problema? Abbiamo chiesto il parere di Paola Profeta, professore di scienza delle finanze e coordinatrice della Dondena Gender Initiative presso l’Università Bocconi:
«Non sono d’accordo con questa proposta. Sappiamo che purtroppo esistono ancora molti svantaggi e ostacoli per le donne lavoratrici in Italia, soprattutto per le madri. Ma le misure dovrebbero combattere questi svantaggi e stabilire la parità, non sancire l’uscita delle donne dal mondo del lavoro. Una proposta del genere sarebbe un incentivo per le donne a non lavorare, una ammissione del ruolo esclusivo delle donne a casa e anche un pretesto per le aziende per continuare a preferire l’assunzione e la promozione di uomini. Il tasso di occupazione femminile in Italia è fermo al 47% da anni, con le conseguenze negative che questo crea sullo sviluppo del Paese e sulla qualità di vita delle famiglie. Dobbiamo pensare a misure per promuovere l’occupazione femminile, non certo per disincentivarla. Torneremmo indietro di decenni, dal punto di vista culturale e della parità di genere. Oltre ai costi che una proposta simile comporterebbe».
Altre lettrici sono scettiche:
«Uno stipendio significherebbe anche scoraggiare le donne nella ricerca di un impiego, per esempio». Nicoletta Schenk
Giovanna Berenato teme poi un duro colpo alla battaglia per un welfare a misura di donna:
«Il problema grosso è conciliare il ruolo familiare con quello professionale, il vero dramma è coniugare i tempi in maniera ottimale. Noi donne non abbiamo bisogno di uno stipendio da casalinga ma di un supporto concreto per facilitare gli impegni di tutti i giorni».
Paola Profeta è d’accordo: «Sì, il nodo conciliazione tra vita personale e professionale è ancora da sciogliere. Sono d’accordo per esempio con la possibilità di avere sconti fiscali per le donne lavoratrici con figli a fronte delle spese sostenute nella cura. Un elemento importante è sviluppare la condivisione: il ruolo dei padri deve cambiare, la condivisione dei caricihi di cura deve essere promossa. I congedi di paternità esclusivi per esempio vanno in questa direzione».
E poi c’è la questione pratica:
«Le donne che lavorano non sono anche casalinghe? Allora va data una quota nelle buste paga delle lavoratrici. Io faccio la spesa nella pausa pranzo, stiro alla sera dopo aver sistemato la cucina, rassetto la casa alle 7 del mattino. Lavoro anche la domenica!» Vanessa Filippi
Forse la vera scelta è il reddito di cittadinanza?
«Se si parla di un reddito minimo di cittadinanza, ok, che vada a tutti quelli che non hanno un lavoro che permetta loro di campare. Se si pensa solo alla categoria casalinghe, allora lo si deve dare a tutte le donne che lavorano e che poi tornano a casa e fanno pure le casalinghe. Praticamente tutte le donne o quasi. Utopia». Adriana Ghirardelli
«Molto difficile quantificare il lavoro a casa. Molto meglio spingere per la condivisione, come dicevo prima. – Spiega Paola Profeta – Non ha nessun senso relegare le donne in casa e poi dare qualcosa. Esiste già nel nostro Paese una detrazione per familiare a carico: se la moglie non lavora, il marito (con un reddito dichiarato fino a 80mila euro) ha diritto ad una detrazione Irpef. L’ammontare è limitato (massimo 800 euro e decresce con il reddito), ma già sappiamo che è distorsivo nei confronti delle scelte di lavoro di alcune donne a basso reddito».