Dieci giorni di congedo parentale (ammesso di essere lavoratori dipendenti) sono troppo pochi anche per i papà. A invocare una modifica delle norme e soprattutto un cambio culturale sono proprio loro, i padri, che da una recente ricerca risultano sotto stress, frustrati e infelici. Sia al lavoro, sia nel loro ruolo in casa, proprio a causa dei vincoli professionali. In poche parole, aumenta il distress genitoriale sia delle donne che degli uomini.
Padri che non riescono a fare i padri
Quasi il 66% dei padri lavoratori ha livelli medio-alti di esaurimento emotivo e burnout. Il 75% non è soddisfatto della propria condizione professionale, ma soprattutto sono in molti a pensare che 10 giorni di congedo parentale siano davvero troppo pochi per “fare i padri”. A dirlo sono i risultati di un’indagine, condotta da MeFirst in collaborazione con LabCom, former spin-off dell’Università di Firenze. Le conclusioni non sorprenderanno di certo le madri, che se ne erano accorte da tempo e a gran voce invocano un’inversione di tendenza.
Per quanto si siano registrati alcuni cambiamenti nel corso degli anni, il mondo del lavoro in Italia parla ancora (troppo) al maschile, relegando alle madri la responsabilità principale della cura familiare. Oggi, però, è cresciuta la sensibilità dei padri su questo tema, tanto che sono proprio loro ad affermare di sentirsi spesso esclusi dalla possibilità di vivere pienamente la genitorialità. I dati parlano chiaro: solo il 7,2% riesce a trascorrere più di 50 ore settimanali con figli, contro il 32,1% delle madri.
Il timore di essere considerati “mammi”
Non solo la legislazione appare ancora carente (basti pensare agli esempi dei Paesi scandinavi in tema di congedo parentale paritario), ma in Italia resistono ancora molti tabù, compreso quello che riguarda la possibilità di usufruire dello stesso congedo di paternità obbligatorio. Secondo le analisi più recenti di ISTAT e dell’Osservatorio sulla Genitorialità in Azienda, solo il 20% dei padri ne usufruisce. È però il motivo a colpire: spesso c’è il timore di essere giudicati meno dediti al lavoro o di subire penalizzazioni di carriera.
Rivoluzione di genere e spazio di cura
Ciò che emerge è che quasi 8 padri su 10 (78%) vorrebbero essere più presenti nell’educazione dei figli, avere un ruolo più attivo, ma si sentono frenati da leggi e contesto sociale: «In questo periodo storico è in atto un cambiamento culturale chiamato “rivoluzione di genere” che avviene in due fasi: la prima è quella per cui sempre più donne ricoprono ruolo sociali, politici, professionali importanti; la seconda quella in cui gli uomini ricoprono sempre di più anche lo spazio di cura», spiega Cristina Di Loreto, founder di Me First e co-autrice della ricerca. Purtroppo, però, nel nostro paese siamo fermi alla prima fase.
Cos’è il paternal wall?
«Sebbene gli uomini sentano il desiderio di vivere di più la paternità, le leggi e il contesto sociale non lo consentono propriamente – prosegue Di Loreto – Il principale motivo è il paternal wall, che nella nostra ricerca è percepito nel 66% dei casi. È un senso di penalizzazione sulla carriera nel momento in cui il ruolo paterno emerge con richieste ed esigenze concrete».
Manca un equilibrio lavoro-famiglia anche al maschile
«Il problema non è solo che i padri non riescono a trovare un equilibrio tra vita lavorativa e familiare, ma che non viene loro riconosciuto il diritto di essere presenti quanto le madri. Il nostro studio evidenzia che il peso della genitorialità continua a essere sulle spalle delle madri, il che non solo limita la libertà e la salute psicosociale delle donne e la loro presenza nel mondo del lavoro, ma impedisce anche ai padri di vivere appieno il loro ruolo».
Cos’è il distress genitoriale
Favorire una maggiore equità nella distribuzione delle responsabilità familiari è fondamentale per il benessere di entrambi i genitori e per l’intera società, pena il rischio distress genitoriale, che colpisce il 74% dei padri intervistati. «Indica il grado di disagio, ansia e frustrazione che il genitore sente – chiarisce Di Loreto – I papà oggi rispondono a richieste nuove, come l’avere il doppio ruolo di lavoratore e genitore, che oggi viene vissuto con sofferenza. Ridistribuire il carico aiuta anche ad alleggerire il carico mentale e il senso di inadeguatezza che a volte si associa al non riuscire a gestire tutto da soli». La conferma è che solo l’11% dei padri dice di essere pienamente soddisfatto del proprio ruolo come padre.
Meno stipendio, ma più paternità
Un altro dato che colpisce è che, secondo un’indagine dell’ADP Research Institute, il 28% dei genitori lavoratori sarebbe disposto ad accettare una riduzione dello stipendio in cambio di maggiore flessibilità negli orari e nei luoghi di lavoro, per potersi occupare anche della famiglia. Il 43%, invece, cercherebbe un altro impiego se fosse obbligato a tornare al lavoro full-time in presenza e questa percentuale sale al 55% tra i genitori con figli di età inferiore a un anno.
La genitorialità fa bene anche alle aziende
Eppure le aziende non sembrano comprendere l’importanza della genitorialità, sia femminile che maschile: «La genitorialità, che oggi viene evitata anche perché non supportata dalle istituzioni e dalle aziende, deve essere prima di tutto capita nel suo valore sociale e poi supportata per ridurre il gap di genere. Ad oggi riguarda soprattutto ancora le donne, ma come mostrano i dati, anche gli uomini oggi vorrebbero un ruolo più equo», conclude Di Loreto.
«Diventare genitori e tornare in ufficio dopo un congedo di maternità, allena molte competenze: per esempio, migliora organizzazione, prioritizzazione, gestione del tempo, pianificazione, empatia, negoziazione, project management, flessibilità cognitiva, problem solving, crisis management, comunicazione efficace e molto altro – osserva Di Loreto – Avere una persona in azienda che ha migliorato in pochi mesi tutte queste abilità e che le può riportare anche in ambito professionale è tutto meno che un ostacolo». Sia per le donne che per gli uomini.
Le misure a sostegno dei padri-lavoratori
Per i padri oggi la principale misura «è proprio il congedo di paternità obbligatorio, di 10 giorni entro i 5 mesi dalla nascita del figlio con una retribuzione del 100%», conferma la consulente del lavoro Elisa Lupo, che aggiunge: «È però evidente che siano pochissimi e andrebbero implementati. Sia perché un padre ha diritto tanto quanto la madre a stare vicino ad un figlio appena nato, sia per dividere il lavoro di cura dei primi mesi tra i due genitori e non farlo gravare solo sulla madre. Ciononostante, non tutti i padri utilizzano questa possibilità, che oggi è comunque arrivata a sfiorare il 65% degli aventi diritto».
Congedo parentale: come funziona?
Con il congedo parentale (sempre per i dipendenti), «il padre lavoratore può assentarsi dal lavoro per un periodo di 6 mesi entro i 12 anni del figlio con una retribuzione ridotta. La durata si allunga a 7 mesi se il lavoratore fruisce di un periodo intero o frazionato di almeno 3 mesi. Il periodo è indennizzato di norma al 30% ma, grazie alle novità introdotte dalla Legge di Bilancio 2025 i genitori di bambini nati nel 2025 possono godere di un trattamento migliorativo pari all’80% per 3 mesi. Negli anni è aumentato l’utilizzo di questo strumento da parte dei padri ma ancora il gap è molto ampio, circa l’80% di chi fruisce dei congedi è donna contro il 20% degli uomini», dice Lupo.
Riposi giornalieri per allattamento (anche per i papà)
«Non tutti lo sanno, ma il padre lavoratore dipendente ne può fruire qualora i figli siano affidati esclusivamente a lui; in alternativa può usufruirne se la madre lavoratrice dipendente non se ne avvale; oppure qualora la madre non sia lavoratrice dipendente (per esempio se è autonoma); o infine in caso di morte o di grave infermità della madre – spiega la consulente – In un’epoca in cui le donne scelgono sempre di più di essere libere professioniste, sensibilizzare maggiormente su uno strumento come questo potrebbe essere d’aiuto per la loro carriera».
Neutra, così dovrebbe essere la scelta di chi si occupa nella coppia dei figli
Il mancato o scarso ricorso a queste misure, in particolare al congedo parentale, ha però un motivo evidente: «Oltre ad un problema culturale, c’è un impatto economico sul reddito familiare. Solitamente i padri hanno un reddito maggiore (in parte dovuto anche al gender pay gap) e la riduzione del loro stipendio peserebbe maggiormente sul bilancio familiare. Un importante aiuto e stimolo alla parità sarebbe inserire dei correttivi secondo cui la decurtazione non è sul reddito individuale, ma sul reddito familiare – conclude Lupo – indipendentemente da chi fruisce del congedo, rendendo in questo modo neutra la scelta di chi si occupa nella coppia della cura dei figli».