Nel saggio Iperconnessi la ricercatrice Jean Twenge racconta come già prima del lockdown i ragazzi partecipassero meno alle feste e non fossero interessati neanche a prendere la patente. Molti, chiusi nelle loro camerette, vivono i pomeriggi mettendosi alla prova in un’altra piazza, quella virtuale dei social.
La piazza virtuale è più facile
Una piazza più facile rispetto al muretto dove ci incontravamo noi, perché permette di vivere le relazioni filtrati da uno schermo, difesi dal senso di vergogna. Per i più fragili, infatti, trovarsi fisicamente in compagnia di altri è come vivere quei brutti sogni in cui si cammina nudi per strada. Chi avrebbe il coraggio di farlo? E questo perché, nonostante i tanti discorsi sul bodyshaming, agli adolescenti oggi viene chiesto di adeguarsi a uno standard fisico molto stringente.
Il bodyshaming vince ancora
Siamo sempre più immersi in una cultura dell’immagine e per i nostri figli è come vivere sotto lenti di ingrandimento che li osservano. Si sentono giudicati per quel seno che è troppo o troppo poco, quel sedere che non ha una forma perfetta e quel brufolo che diventa un orrore, un ostacolo insormontabile. Chi è abbastanza sicuro della sua immagine o almeno ha qualche amico che lo fa sentire a suo agio, alla fine del lockdown si è dato da fare per recuperare il tempo perduto, ma chi è più critico verso se stesso rimane bloccato. Trovare, se ci sono, spazi di complicità ancora infantile con i nostri figli, condividere una colazione in pasticceria o la partita allo stadio va benissimo, ma noi adulti non possiamo e non dobbiamo andare più in là di questo.
Non chiediamo troppo ai figli
Cerchiamo di restare sintonizzati sulla loro fatica e di lasciargli spazio per crescere. Mostriamoci presenti, disponibili e comprensivi. Ma non carichiamoli di un’aspettativa in più. Non pretendiamo che, oltre ad andare bene a scuola e a essere sufficientemente educati, debbano essere anche socialmente performanti. Questo i nostri genitori non ce l’hanno chiesto. E hanno fatto bene.