Adagio – puntata 1
Nel numero di Donna Moderna in edicola il 1° ottobre 2020 iniziamo un viaggio lento e appassionato nell’Italia da scoprire. Un racconto a puntate, a cadenza mensile, che coinvolge grandi scrittori, giornalisti, studiosi, che qui raccontano i loro paesi, territori, regioni. E scavano nella storia dei luoghi e nelle tradizioni della gente, per farci conoscere un patrimonio prezioso ma spesso dimenticato.
Cominciamo con il reportage della scrittrice abruzzese Donatella Di Pietrantonio, autrice del romanzo cult L’Arminuta, che in queste pagine ci fa scoprire l’Altopiano di Campo Imperatore e i suoi borghi.
Le foto del servizio sono di Giacomo Fè
_________________________________
La strada che preferisco per arrivare a Campo Imperatore è quella che s’inerpica dal versante pescarese offrendo, sempre più vicino di curva in curva, il profilo della Bella Addormentata o Gigante che dorme, con la capigliatura rocciosa che digrada verso il Gran Sasso, basilica naturale in dialogo millenario con l’altra, la Maiella. Così le vedeva Ennio Flaiano.
Da bambina, quando mio padre mi portava su da Arsita nel nostro unico giorno di vacanza all’anno, immaginavo di salire a svegliare la montagna, di farle il solletico. La Bella si sarebbe alzata scuotendo i capelli di pietra e mi avrebbe presa in una mano per mostrarmi il panorama fino ai due mari, il Tirreno da una parte e l’Adriatico dall’altra, fino alle isole Tremiti e le barche come puntini brillanti nell’azzurro. Era il 7 agosto, festa di San Donato a Castel del Monte.
Oggi, salendo in quota, il primo spettacolo è la faggeta secolare che si estende serrata fino al valico Vado di Sole, a 1.200 metri di altezza. Siamo in pieno foliage. Maria, la mia amica, si ferma e fotografa.
Da raccontare è più difficile questa tavolozza dalle infinite gradazioni del rosso, giallo, verde e marrone dispiegata sulle nostre teste a chiudere la vista del cielo. Siamo in un tunnel arboreo dove a tratti penetrano i raggi del sole. Maria, sempre più informata di me, dice che qui vengono i creativi delle aziende tessili e dei più prestigiosi marchi d’abbigliamento a studiare le sfumature di colore da proporre nelle loro collezioni. E io mi sento orgogliosa di questi boschi, anche se l’asfalto sotto i nostri piedi ne ha di buche e gli ammortizzatori della macchina nicchiano. Ma nelle stesse crepe l’aria trasporta grumi di terra dove a volte fiorisce il tarassaco e tanto basta a ripagarmi.
C’è un po’ di vento, oggi, volano le foglie ammassate sul ciglio della strada. Gli effetti dell’altitudine sono evidenti: in basso gli alberi ancora verdi, poi c’è tutta la fascia del foliage e in quota i rami spogli. Qui di notte fa già molto freddo. Arriviamo al valico dove il tempo può cambiare bruscamente: sole su un versante, pioggia o addirittura neve sull’altro. Ma oggi no, oggi è variabile dappertutto.
La vista spazia sull’altopiano di origine glaciale e carsico-alluvionale, delimitato dai monti o da alture morbide come groppe di animali, a seconda dei capricci di antichi terremoti. In mezzo si stende la prateria, bionda di erbe secche in questa stagione. Il vento la pettina sotto i nostri occhi, le strappa bagliori dorati. Questo è il mio paesaggio dell’anima. Fosco Maraini, che di montagne ne aveva viste, lo definì “piccolo Tibet”. Ogni volta mi emoziona il contrasto tra la parete severa, verticale, del Corno Grande e il Prena tutto sbriciolato in tozzi di pane. Qui, se venite, potete vedere i cavalli galoppare liberi, e poco più in là una mandria di mucche o qualche centinaio di pecore. Generazioni di pastori hanno pascolato le loro greggi in primavera ed estate, per riprendere poi la via dei tratturi a settembre, in direzione del mite inverno pugliese. Per ingannare il tempo qualcuno lavorava il legno, i pochi alfabetizzati leggevano libri faticosamente trovati, altri componevano versi. Francesco Giuliani, l’ultimo poeta-pastore, intagliava, leggeva e scriveva. Coltivava se stesso nelle giornate lunghissime trascorse in solitudine sull’altopiano.
Oggi le pecore sono custodite da macedoni, dipendenti dei proprietari delle greggi, e la transumanza è una pratica estinta, sostituita dalla monticazione, come ci spiega Marinella quando arriviamo a Castel del Monte lasciandoci alle spalle la vetta lunare del Bolza. Ma prima di fermarci da lei giriamo per le vie del borgo di impianto altomedioevale, ammirando le case in pietra con le caratteristiche torri a base stretta e circolare che si sviluppano in altezza fino a cinque o sei piani. Dall’abitato sono visibili le tracce concentriche del primitivo insediamento vestino sul Colle della Battaglia. Poi sono passati un po’ tutti, Romani e Longobardi, Borboni e banditi, costruendo e distruggendo senza soluzione di continuità. Nei periodi più floridi, tra il XVI e il XVIII secolo, il patrimonio ovino è arrivato a superare i 50.000 capi e la produzione di lana era importante. Ma dopo la seconda guerra mondiale il mercato italiano è stato invaso da lane straniere, più economiche, e soprattutto dalle fibre sintetiche. Una massiccia ondata migratoria ha ridotto il numero dei castellani di nove decimi, come nella maggior parte dei borghi lungo la dorsale appenninica. I pochi giovani rimasti provano a reinventarsi l’antico, con gli strumenti che hanno oggi a disposizione. Così Marinella ci spiega la monticazione: quando arriva il freddo le pecore non vanno più sul Tavoliere, ma in moderni capannoni alle porte del paese, dove mangiano fieno. Solo qualche mese, poi tornano sui pascoli. Il risultato è il canestrato di Castel del Monte, un pecorino di razza che lei ci fa assaggiare nel suo negozio di prodotti tipici a chilometro zero, la maggior parte di produzione propria. Suo marito, Alessandro Pelini, si è reinventato l’allevamento di un’antica razza autoctona, il maiale nero d’Abruzzo, più piccolo ma più resistente – anche alla neve – di quello rosa e con una particolare qualità della carne. Ecco i salumi, esposti nel banco frigo, da abbinare al pane di solina, pure coltivata in zona. Altri stanno lavorando sulla lana e un’azienda leader mondiale nell’alta moda come la Brioni – «con sede nella nostra Penne» sottolinea Maria – sta già producendo capi sartoriali in lana abruzzese.
Abbiamo fame di un pasto caldo, a due passi c’è il rinnovato “Miramonti” che ha anche le camere. Mangiamo un’ottima zuppa di patate, fagioli e vòlacri che altrove si chiamano òrapi e sono comunque spinaci selvatici, ma si sa, in Abruzzo ogni dialetto deve nominare le cose a parole sue.
Ripartiamo. A Rocca Calascio solo una breve sosta, per ammirare dal basso il borgo medioevale e il castello in pietra bianca a conci squadrati, con vista sull’Appennino abruzzese, la valle del Tirino e l’altopiano di Navelli, dove si produce uno speciale zafferano. Maria mi ricorda che qui sono stati girati Ladyhawke, Il nome della rosa e, più recentemente, alcune scene di The american, con George Clooney.
Nella vita chiunque avrebbe il diritto di ammirare almeno una volta questo panorama che invece è rimasto poco conosciuto, nonostante il cinema. Non siamo diventati le Dolomiti dell’Italia centrale. Non siamo bravi a mostrarci. In un territorio che non è certo vocato al turismo di massa non siamo stati capaci, noi abruzzesi, di far crescere un turismo sostenibile. È triste tanta bellezza sprecata. Abbiamo chiese straordinarie (una su tutte, l’Oratorio di san Pellegrino con il suo meraviglioso ciclo di affreschi medioevali, a Bominaco, non lontano da qui) le cui chiavi sono in certi casi custodite da vecchiette che devi inseguire nei campi dove sono andate a fare la cicoria.
«Ma sta lì il gusto» dice Maria.
In questo nostro essere forti e gentili, ospitali e riservati. Con il cuore aperto e il silenzio in bocca.
Rinunciamo quindi a salire al castello più alto d’Italia (a 1.460 metri) e alla vicina chiesa di santa Maria della Pietà, a pianta ottagonale. C’è troppo vento e sono poche le ore di luce davanti a noi.
Santo Stefano di Sessanio è la nostra tappa finale. La prima notizia certa della sua esistenza risale al 1239. Appartenente in origine al distretto feudale della Baronia di Carapelle, Santo Stefano passa sotto il dominio di varie famiglie in successione, per raggiungere il massimo splendore sotto i Medici, fino al 1743. In quel periodo la lana “carfagna” prodotta qui viene lavorata in Toscana e venduta in tutta Europa. Il borgo medioevale a nido d’aquila che si avvolge intorno alla sua torre si impreziosisce di palazzi, chiese, colonnati in stile rinascimentale. Ammiriamo ancora oggi, io e Maria, il dedalo di vicoli, alcuni voltati, le piazzette improvvise, le scalinate esterne in pietra che ricordano i disegni di Escher. Dopo la decadenza e la fine del commercio della lana, dopo la massiccia emigrazione che lo ha spopolato, dopo il terremoto del 2009 che ha distrutto il suo simbolo, la suggestiva Torre medicea, ora in lenta ricostruzione, tra uno scandalo e l’altro, Santo Stefano resta una meraviglia conservata com’era. La modernità è arrivata senza corromperla. Di questo bisogna ringraziare anche Daniele Kihlgren, l’imprenditore italo-svedese che ha ideato per questo borgo un modello di ospitalità diffusa divenuto celebre nel mondo. L’unico possibile, qui. L’Albergo Sextantio non è un edificio, è una filosofia, una visione: sono le antiche case recuperate nel rispetto dell’identità locale, con il riuso di materiali autoctoni, in collaborazione con la gente che eroicamente resta o persino torna.
Kihlgren non è il solo. Mirella del B&B “La bifora e le lune” ha avuto il coraggio o la temerarietà di acquistare il palazzo dopo il terremoto. Dice che il sisma ha cambiato la sua idea di proprietà, che ora riesce a pensarla solo condivisa. Apre il suo B&B a poeti, artisti, porta gli ospiti a raccogliere lo zafferano a San Pio delle Camere, le erbe selvatiche commestibili a Campo Imperatore.
È nelle mani di quelli come lei la nostra speranza. Di restituire un futuro a questa terra bellissima e tormentata.
È buio ormai. In una bottega compriamo le famose lenticchie di qui e i ceci neri, ripartiamo. Potremmo scegliere una strada più comoda, ma preferiamo riattraversare l’altopiano. Con i fari Maria abbaglia gli occhi delle pecore rientrate in un recinto, che si tengono caldo strette strette. Sono le ultime rimaste, le altre già tutte a valle nei capannoni. Qualche chilometro dopo illuminiamo una volpe dalla folta coda, è l’ultimo incontro della nostra giornata.