8 Marzo, festa delle donne: per molte di noi è stata un’occasione in più
per uscire, andare in discoteca, divertirci con le amiche partecipando alle numerose
feste a tema organizzate nei vari locali. Un momento, insomma, per riscoprire
il nostro Girl Proud, per affermarlo in momenti di
divertimento off-limits per il sesso forte (?).
Eppure, un altro evento ha contribuito a celebrare questa giornata, forse in maniera
più sommessa, raccolta, ma al tempo stesso più energica: l’uscita
nelle sale italiane del film Moolaadé, diretto
dall’ottantatreenne regista Ousmane Sembène e insignito
del premio "Un certain regard"
al Festival di Cannes.
Un lungometraggio, prodotto da Lucky Red ed Amnesty International, che si propone
di denunciare una delle più inaudite violenze che viene commessa sulle
donne e che in Occidente molti preferiscono non vedere, chiudendo gli occhi o
nascondendosi dietro alla scusa del rispetto delle tradizioni:
l’infibulazione.

Il film, ambientato nel Burkina Faso, in un villaggio,
racconta la storia di sei bambine che fuggono dal loro villaggio per scampare
all’usanza dell’escissione: due muoiono buttandosi in un fosso, mentre le altre
quattro cercano ospitalità presso la casa di Collè ardo, che sette
anni prima si era rifiutata di sottoporre sua figlia a quella brutale pratica.
Da questa situazione si genera un conflitto tra due valori: il rispetto del diritto
d’asilo (il Moolaadé, da cui il titolo del film) e il rito dell’infibulazione
(la Salindé).

Un atto di accusa contro un barbaro rituale mascherato da
tradizione
, ma anche contro chi, in Occidente, ignora (o preferisce ignorare)
questa violazione dei diritti umani. In una società che sembra preoccuparsi
del rispetto dei diritti umani solo in situazioni che la riguardano direttamente,
non desta scalpore che molti non siano a conoscenza di questa atroce sofferenza
che viene inflitta quotidianamente a donne colpevoli solo di non essere nate nella
parte del mondo giusta.
Esistono tre tipi di mutilazioni dei genitali femminili:

la clitoridectomia, in cui viene asportata tutta,
o parte della clitoride, l’escissione, che prevede
l’asportazione sia della clitoride che delle piccole labbra e infine l’infibulazione,
la forma più estrema e più crudele, in cui alla pratica della clitoridectomia
e dell’escissione, si aggiunge anche il raschiamento delle grandi labbra che sono
poi fatte aderire e tenute assieme, così che, una volta cicatrizzate, ricoprano
completamente l’apertura della vagina, a parte un piccolo orifizio che servirà
a far defluire l’urina e il sangue mestruale.
Per favorire la cicatrizzazione, inoltre, le grandi labbra vengono legate con
fili di crine o spine di acacia e le gambe devono essere tenute legate per un
periodo di quaranta giorni, dopo avere applicato sulla ferita un composto a base
di erbe, latte, uova, cenere e sterco.

Inutile anche accennare ai rischi fisici che comporta
questa operazione, eseguita la maggior parte delle volte in assenza di precauzioni
igieniche e dalle stesse donne della tribù, che quindi non hanno alcuna
conoscenza dei principi medici e delle possibili reazioni del corpo a questa tortura
vera e propria: non solo emorragie e infezioni, ma anche
ascessi e tumori benigni ai nervi
che innervavano la clitoride, o infiammazioni
del tratto urinario, accanto al rischio di contrarre quella che è la malattia
più preoccupante del XXI secolo, l’AIDS.
Traumi fisici che si aggiungono a quelli psicologici: oltre allo shock in cui
incorre la bambina, l’infibulazione fa crollare ogni speranza di una serena vita
sessuale, in quanto il rapporto è molto doloroso
(difatti l’uomo ritiene che tale pratica sia il modo migliore per scongiurare
la possibilità di un adulterio da parte della moglie) e spesso si rende
necessario praticare un taglio alle grandi labbra prima del rapporto sessuale.
Inoltre questo taglio è necessario anche prima del parto, il che comporta
la necessità di praticare di nuovo l’infibulazione una volta che il bambino
è venuto al mondo.

Nel rispetto di una tradizione che sopravvive solo a causa dell’ignoranza e delle
superstizioni che sopravvivono in questi villaggi, ogni giorno la felicità
futura di molte bambine viene compromessa irrimediabilmente. E questo nel migliore
dei casi, considerato che non mancano le volte in cui le complicazioni portano
alla morte. L’Occidente ha aspettato a lungo prima di mobilitarsi, ma finalmente,
nel 1993, le mutilazioni sui genitali femminili sono state dichiarate una forma
di violenza nei confronti delle donne e nel 1994 la collaborazione tra le agenzie
dell’ONU e le ONG ha contribuito alla creazione di un "Piano
di azione per eliminare le pratiche tradizionali pregiudizievoli per la salute
della donne e delle bambine."

In Italia invece l’infibulazione viene considerata un reato
solo dal 22 dicembre 2005
: la nuova legge, infatti, detta "le misure
necessarie per prevenire, contrastare e reprimere le pratiche di mutilazione genitale
femminile quali violazioni dei diritti fondamentali all’integrità della
persona e alla salute delle donne e delle bambine"
in "attuazione
degli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione e di quanto sancito dalla Dichiarazione
e dal Programma di azione adottati a Pechino il 15 settembre 1995 nella quarta
Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne".
Inoltre è
prevista l’organizzazione di campagne di informazione tra gli immigrati per far
conoscere la nuova normativa e contribuire all’estinzione di questa brutale pratica;
si calcola infatti che nel nostro Paese vivano quarantamila donne infibulate e,
ogni anno, sono circa seimila le bambine, i cui genitori provengono dall’Africa
sub-sahariana, che rischiano di subire questo abuso.
I primi passi sono stati fatti, ma si è arrivati a scalfire solo la punta
dell’iceberg: perché la situazione cambi davvero bisogna che siano le donne
occidentali a decidere di aprire gli occhi, a scegliere di indignarsi perché
nel 2006 in una parte così vasta del mondo i diritti umani vengono ancora
calpestati, a preferire la via della lotta piuttosto che quella dell’indifferenza.