Adagio – puntata 4

Continua il nostro viaggio lento e appassionato nell’Italia da scoprire. Un racconto a puntate che coinvolge scrittori, giornalisti, studiosi, che raccontano i loro territori e scavano nella storia dei luoghi e nelle tradizioni della gente per farci conoscere un patrimonio prezioso.

Le puntate precedenti sono firmate dalla scrittrice Donatella Di Pietrantonio, dalla zoologa Mia Canestrini e dalla regista Anna Kauber.

Qui trovi il racconto di Massimo Turchi, Presidente dell’Associazione Linea Gotica – Officina della Memoria, che ripercorre la battaglie decisive della seconda guerra mondiale.
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Sono imponenti i crinali dell’Appennino, che dalle dolci colline adriatiche si insinuano nelle aspre Alpi Apuane sulla costa versiliese e furono il teatro dell’ultimo fronte di guerra della Campagna d’Italia: una barriera naturale lunga 320 chilometri che dall’estate 1944 alla primavera 1945 diviene l’ultima linea difensiva tedesca, denominata Linea Gotica dallo stesso Hitler. Trentotto sono le Nazioni di tutto il mondo schierate su queste montagne.

Montagne che dividono: a sud il territorio liberato dagli Alleati, americani e inglesi, dove inizia una vita democratica; a nord l’esercito tedesco che difende il resto d’Italia e il suo settore produttivo. Poi ci sono gli italiani: da una parte i soldati dell’Esercito cobelligerante italiano e i partigiani, dall’altra i militari della Repubblica Sociale. E, infine, la popolazione, per la quale guerra significa fame. A sud può contare sui soldati alleati che distribuiscono cibo, e doni ambiti diventano pure i chewing gum, i collant, la Coca Cola; a nord l’imperativo è nascondere le provviste, e mille sono i trucchi escogitati, dai prosciutti infilati nell’incavo dei castagni al grano sigillato nelle damigiane sepolte sottoterra.

Alpi Apuane Toscana
Le Alpi Apuane in Toscana, tra Lunigiana, Garfagnana e Versilia

Ma la Linea Gotica è anche un confine permeabile, attraverso il quale passano gli agenti segreti di entrambi gli schieramenti e i civili in cerca di salvezza, con la paura di venire uccisi, incappare nei campi minati o rimanere intrappolati nella terra di nessuno. Qui ogni valle e ogni paese ancora oggi racconta una storia diversa dalle altre.

Tutto inizia alla fine dell’agosto 1944, quando l’esercito inglese, sotto lo sguardo attento di Winston Churchill, varca il fiume Metauro con l’obiettivo di arrivare a Rimini. Il fronte si sviluppa su 48 chilometri, dall’Adriatico alle colline dell’Appennino romagnolo. I polacchi si dirigono su Pesaro, i canadesi verso Cattolica, gli inglesi si fermano sotto i crinali a nord del fiume Foglia. A Monte Gridolfo la situazione di stallo viene risolta dal gesto eroico del sudafricano Ross Norton che, da solo, il 31 agosto riesce ad aprire la strada al suo plotone per la conquista del castello. Nel 2004 il Comune gli conferirà la cittadinanza onoraria, e lui commenta così: «Quando si è giovani si compiono azioni folli». Il primo sbarramento della Linea Gotica viene spezzato grazie ai gurkha dell’esercito nepalese che conquistano Tavoleto, ma il secondo è già pronto e i tedeschi attendono.

Sulla nuova linea difensiva sorge Gemmano e la battaglia che vi si combatte è una delle più dure. Le mura della cittadina arroccata sulla cima di Monte Gardo offrono un ottimo riparo agli esperti alpini tedeschi. Nel pomeriggio del 5 settembre 1944 le artiglierie inglesi vi riversano un’enorme quantità di fuoco, la terra trema, molti rimangono intrappolati nelle loro case. Quando torna la quiete, ma le orecchie ancora fischiano, i soldati inglesi si lanciano all’attacco risalendo la collina. Si combatte casa per casa: ogni angolo, ogni muro viene conteso, conquistato, perso e ripreso. I tedeschi sono quasi circondati, ma resistono. E i giorni passano, lenti. Il 9 settembre la battaglia arriva nella piazza del paese: da un lato i tedeschi, dall’altro gli inglesi. È mezzogiorno quando da una casa si apre una porta e una donna anziana vestita di nero, curva per l’età, esce: ha fame. Alpini e fanti rimangono increduli per l’apparizione. O è un’allucinazione? Non capiscono, ma smettono di sparare. La vecchietta, esile e indifesa, muove un passo, poi un altro, sorpresa di trovarsi in mezzo a dei giovani che cercano di uccidersi. Le viene fin troppo naturale raccomandare loro, come fossero suoi nipoti: «State buoni, ragazzi, che vi fate male». Dopo essere scomparsa dietro l’angolo di una casa, la battaglia riprende: la tregua è finita. Gemmano viene occupata solo il 15 settembre; Rimini il 21, dai soldati greci che così riscattano l’occupazione italiana del loro Paese.

Nel frattempo inizia l’attacco americano. D’ora in poi saranno i monti dell’Appennino tosco-emiliano le zone da conquistare. E i monti, prima di arrivare a Bologna, sono tanti e tutti aspri, irti. L’obiettivo è il Passo della Futa nel Mugello, da cui passa la strada più breve per raggiungere il capoluogo emiliano. I comandi americani incaricano un agente segreto italiano, Angelo Pitoni, di verificare l’esistenza delle rampe di lancio tedesche dei razzi V2. Pitoni, nome in codice Patata, si fa assumere alla Todt, l’organizzazione tedesca che realizza le fortificazioni. Prendendo il posto del civile che vende il vino ai soldati di presidio alle postazioni difensive, riesce a ottenere da quest’ultimi l’informazione che tali rampe di lancio non esistono. I comandi americani cambiano il piano, decidendo di attaccare il passo del Giogo: lo conquistano solo il 17 settembre, dopo 4 giorni di dure battaglie. Umberto Bisaccioni, parà italiano aggregato ai tedeschi, al soldato americano che lo cattura, in cerca di trappole esplosive, risponde: «Ma che cazzo di mine cerchi? Qui siamo tutti morti di fame e di sete!». E così anche nel Mugello la Linea Gotica è infranta.

Negli stessi giorni, nella valle del Reno, il massiccio di Monte Sole è teatro di un’azione contro la brigata partigiana che gli stessi comandi tedeschi definiscono di “annientamento”. Il 29 settembre truppe delle SS e dell’esercito tedesco cingono d’assedio la montagna con l’intenzione di uccidere tutti quelli che incontrano. Ai primi spari, gli uomini si nascondono nei boschi, mentre donne, vecchi e bambini si raccolgono nelle chiese, da sempre considerate luoghi inviolabili. Sono giorni lunghissimi, in cui si odono solo raffiche di mitra, colpi di fucile, bombe a mano che esplodono, urla, e case che bruciano nella pioggia e nella nebbia: 770 sono i morti alla fine del rastrellamento, di cui 216 i bambini. È la strage di Marzabotto, la più grande dell’Europa occidentale. Elide Ruggeri, una superstite, racconta: «Alle 9 circa le SS sfondarono la porta ed entrarono nella chiesa. Capimmo subito, dalla disperazione del parroco, quali fossero le loro intenzioni. Ci fecero uscire formando una colonna e fummo inviati, con le armi puntate ai fianchi, verso il cimitero. Poi piazzarono la mitragliatrice all’ingresso e cominciarono a sparare, mirando in basso per colpire i bambini».

Marzabotto
Marzabotto, teatro della terribile strage a opera dei tedeschi

Tante altre battaglie si susseguono, in un incalzare giornaliero di cui è difficile persino tenere il conto, fino alla stasi invernale. In Romagna gli inglesi procedono fiume dopo fiume e il 5 dicembre 1944 conquistano Ravenna in un’azione congiunta con i partigiani, che grazie al piano studiato dal loro comandante, riescono a scongiurare la distruzione del patrimonio artistico. Solo nel gennaio 1945 i comandi americani decidono di sfondare verso Bologna, questa volta però dalla valle del fiume Reno.

Giunge in Italia una divisione alpina americana, ben addestrata, col compito di conquistare il Monte Belvedere e poi da lì, cima dopo cima, arrivare fino in pianura. La notte del 18 febbraio 1945 gli alpini salgono furtivamente i quasi 600 metri dei ripidi Monti della Riva, “Riva Ridge” nel loro gergo, ovvero Monte Serrasiccia, Monte Cappel Buso e Pizzo di Campiano. La sorpresa riesce, le vette vengono prese. Bob Thompson, alpino americano, ricorda: «Il mio plotone fu incaricato di presidiare un avamposto sotto a Riva Ridge, dove condividemmo il compito di guardia con un gruppo di partigiani. Ho trascorso il tempo imparando un italiano abbastanza passabile, che più tardi mi sarebbe tornato utile». Intanto, ai primi di febbraio, in Versilia, gli afroamericani ricevono l’ordine di attaccare attraverso il canale Cinquale, ma finiscono sotto il tiro implacabile delle difese tedesche. È una carneficina, tanto da spingere E. J. Rowney, comandante americano, a raccontare: «L’intera bocca del canale divenne rosso sangue». Tale scena diverrà l’apertura del film di Spike Lee Miracolo a Sant’Anna.

Nel frattempo nelle retrovie alleate la vita dei civili riprende, c’è voglia di conoscere questi liberatori venuti da tutto il mondo. Quando a Faenza viene aperta una mensa per i militari, molti cittadini vi si recano nella speranza di ricevere doni o solo per curiosità. Alcuni si spingono fino all’accampamento dei gurkha nepalesi, attirati – come ricorda un civile – dai loro «capelli impiastricciati a treccioline e dagli strani riti di abluzione». A Forlimpopoli un altro civile, Giulivo Vitali, rammenta: «Ho visto un funerale indiano in piazza, han fatto una catasta di legna e poi han bruciato un cadavere». Arriva infine aprile 1945 e gli anglo-americani si muovono su tutto il fronte, determinati a sfondare definitivamente le ultime difese della Linea Gotica. In Versilia entra in azione l’unità dei Nisei, figli di quegli immigrati giapponesi in America imprigionati dopo l’attacco alla base Usa di Pearl Harbour del 1941. Ed è proprio tale unità americana, in cui Nisei sono inquadrati, a essere la più decorata della seconda guerra mondiale. A loro spetta il compito di scalare le Apuane e di conquistare le postazioni tedesche. I sudafricani invece, nel bolognese, devono prendere la cima di Monte Sole, mentre i gruppi di combattimento dell’esercito italiano sono schierati verso la Romagna, con l’obiettivo di raggiungere Bologna. A metà aprile viene dato il via, e la “corsa” ha inizio. Dopo aver superato il fiume Senio, i polacchi ingaggiano una dura battaglia sul fiume Gaiana, proprio alle porte di Bologna. Nel frattempo gli alpini americani raggiungono il Po, lo oltrepassano per arrivare a Riva del Garda, mentre i neozelandesi si spingono verso Trieste. Il 2 maggio 1945, in Italia, finisce la guerra. Nulla sarà più come prima. Sui crinali dell’Appennino le ferite faticano a rimarginarsi. Ancor oggi, sul terreno, i segni rimangono quali testimoni silenti della tragedia vissuta.