Latteria agricola. Drogheria. Casa cantoniera. Alimentari. Tengo mentalmente traccia delle lettere sbiadite che vedo fuori dal finestrino dell’auto mentre si riducono i chilometri tra me e la destinazione impostata su Google Maps: Montespluga, una piccola frazione di Madesimo, il comune italiano più distante dal mare, in provincia di Sondrio. Almeno fino al momento in cui i muri rossastri dei rifugi non lasciano spazio a quelli candidi della neve, e mi bruciano gli occhi da quanto bianco mi circonda. Li chiudo e concedo un volto altrettanto pallido e scoperto a un meraviglioso sole di mezzogiorno.

Montespluga, alla “fine del mondo”

Hai mai sentito parlare del Passo dello Spluga? Io mai, fino allo scorso weekend. Ma del resto non faccio testo, perché sono ventitré anni che provo a imparare la collocazione delle varie “Val di” senza successo alcuno. Comunque, il Passo dello Spluga è il valico alpino che unisce Italia e Svizzera, a circa duemila metri d’altitudine, là dove un dito ancora sconosciuto mi sta dicendo di guardare. Non ho un grande senso dell’orientamento, ma mi basta aver recepito che d’inverno il passo è chiuso: sono a Montespluga, un puntino minuscolo nel bianco immacolato di un luogo poco antropizzato, un anfiteatro naturale, l’ultimo avamposto prima del nulla, e la sensazione che ne consegue è ambivalente. Da qualche parte, sotto l’intimo termico della Decathlon, un brivido mi riattiva all’idea di prendermi finalmente una pausa di riflessione dalla mia odiosa partner: la densità (di gente, rumori, pensieri). E in ogni caso, causa conformazione geologica, le mie vie di fuga sono sostanzialmente ridotte del 50%. Sarà meglio tendere la mano guantata e presentarmi a questo angolo incontaminato di alta montagna.

Paesaggio innevato sulle Alpi della Valchiavenna, nel paese di Montespluga. Foto: Shutterstock

Cosa si fa a un festival dello scialpinismo?

A semplificare le cose tra di noi, in questo primo appuntamento, c’è un mediatore. Si chiama Homeland Skialp Fest ed è un evento organizzato da ASSO Orobica ASD in collaborazione con Spiagames Outdoor Agency. Un festival di tre giorni che porta con sé la passione per il freeride (cioè l’attività fuoripista in neve fresca) e lo scialpinismo, una disciplina sportiva molto simile allo sci, con la differenza che si sale a piedi sulla montagna invece di prendere gli impianti di risalita.

Sci in spalla e inizia la salita! Foto: Homeland

Qui a Montespluga, infatti, non ci sono skilift o simili: chi viene in questo luogo, lo fa per sciare in un modo diverso da quello che siamo abituati a immaginare. Aggancia le pelli sotto agli sci (le pelli – altra new entry del mio vocabolario – sono fasce di tessuto che impediscono di scivolare all’indietro), fatica tre ore in salita per poi godersi pochi minuti di discesa nel bianco totale. Mentre alzo la testa per osservare le linee sinuose tratteggiate dagli sciatori e dalle sciatrici, provo a immaginare lo sforzo dietro ogni singolo passo in salita, poi magicamente convertito in un’ineguagliabile sensazione di libertà. Non è la mia esperienza che parla, ovviamente, ma la mia accompagnatrice Susanna. La sua voce si armonizza con il suono croccante della neve tagliata sotto i nostri piedi dalle punte metalliche delle ciaspole, mentre camminiamo sopra il Lago di Montespluga.

Gli stand del festival. Foto: Homeland

Susanna Marchini, 34 anni, è la responsabile del progetto Homeland, operativo solo nei weekend da dicembre ad aprile compatibilmente con le condizioni meteo. «Nasce con l’intento di riabitare l’ultimo borgo della valle avvicinando i neofiti allo scialpinismo e alla splitboard». Altra parola nuova da aggiungere al glossario: la splitboard è una tavola da snowboard divisa verticalmente in due, in modo tale da permettere la salita a piedi. Una volta raggiunta la cima, si “uniscono” le due tavole e si può riscendere. Geniale, no? Ma torniamo a Susanna, che viene da una famiglia di montanari: «Homeland è un hub dove esercitarsi, imparare in tutta sicurezza e affrontare percorsi appositamente studiati, in totale libertà o con il supporto delle guide alpine. Abbiamo sempre cercato di inserirci nel contesto in punta di piedi, nel rispetto del luogo». Marchini mi spiega che le persone che passano attraverso l’hub sono vogliose di esplorare il territorio, ma anche di farlo con criterio. «Incentiviamo uno sci non di performance né di competizione, ma piuttosto legato alla scoperta di un contesto nuovo e al rispetto dello stesso. Non è assolutamente una questione di cronometro, ma di esperienza». Scelgo di verificarlo con i miei occhi, lasciandomi alle spalle le bandiere fucsia di Homeland che recitano “Esplora e impara” e dirigendomi là dove mi pare di scorgere un concentrato di bicchieri fumanti.

Il festival prevede ski test, talk e proiezioni, bike & ski, escursioni scialpinistiche divise per livelli, ciaspolate, safety camp (una giornata dedicata al soccorso in valanga e alla sicurezza sulla neve), night camp (pernottamento in tenda sotto le stelle), street food e musica. Anche se forse non ho lo zaino adatto e non vedo nessun’altro con strass e ponpon sulla berretta, mi piace come mi fa sentire camminare tra gli stand del festival. C’è un clima conviviale, il sapore accogliente delle sagre. Ci sono persone di tutte le età: gruppi di giovani, famiglie con bambini e cani, coppie più in là con l’età. Chissà se tra loro ci sono anche le ultime sei persone con residenza a Montespluga. Mi guardo attorno, parlo con qualcuno, mi faccio raccontare storie e passioni.

Voci femminili: le donne che ho incontrato a Montespluga

Adele Giovannoni, 32 anni, è insegnante di sci e geologa. Ha sempre vissuto a Madesimo e a scuola ci andava con lo slittino, è nata da due maestri di sci che l’hanno portata sulla neve all’età di tre anni. Chiacchieriamo su una panca di legno, godendoci il caldo della tensostruttura. «Mi sono avvicinata prima al mondo del freeride, poi allo scialpinismo. E ho preso anche la specializzazione telemark». Ecco un altro nuovo termine che ho imparato a Montespluga: il telemark è un’antica tecnica sciistica nata in Norvegia, anche detta “a tallone libero” perché solo la punta del piede è collegata allo sci. «È più elegante perché ti devi sempre inchinare, e più faticoso perché richiede una continua ricerca dell’equilibrio», continua Adele. Che ha studiato geologia concentrandosi prima sui ghiacciai, poi su frane e valanghe. «Oggi lavoro come geologa in uno studio di ingegneria di Sondrio. Progettiamo opere paravalanghe e, tramite modellistica, simuliamo le slavine per capire come potrebbero interferire con le opere architettoniche. In estate invece studiamo perlopiù la roccia, per prevenire frane e simulare cadute massi». Ciò che sto ascoltando è per me tutto nuovo, tutta una scoperta, l’occasione per porre domande sinceramente curiose. Tipo: cosa ti dà di diverso il freeride rispetto alla pista?

Non sali velocemente, quindi hai il tempo di guardarti attorno e di osservare la montagna in tutte le sue caratteristiche. Senti di esserne parte, ci entri in sintonia

Concorda Elisabetta Podetti, 25 anni, che è qui al festival per far conoscere i prodotti del brand per cui lavora, per lo più dispositivi ARVA (obbligatori per gli scialpinisti, servono a localizzare eventuali sepolti da valanga) e zaini con airbag anti-valanga (che ti fanno letteralmente “galleggiare” sulla massa di neve). «Ho iniziato con lo sci di fondo a livello agonistico, poi mi sono innamorata di qualsiasi sport prevedesse un contatto con la natura e soprattutto con la neve – mi racconta Elisabetta – Il fuori pista mi dà una grande sensazione di libertà: sono io a decidere dove andare e quale direzione prendere, un’emozione davvero unica. L’importante è farlo in sicurezza e correttamente equipaggiati, anche della consapevolezza di ciò che si sta facendo». Sorpassando lo stand di Elisabetta, mi fermo a chiacchierare con un’altra donna. Valeria Cola ha 53 anni, è una fedele lettrice di Donna Moderna (già ci piacciamo!) e col marito viene a sciare tutti i fine settimana a Montespluga. «Ogni volta è diverso, ma è sempre magnifico, in tutte le stagioni. Noi facciamo scialpinismo da diciassette anni e ne adoriamo l’adrenalina. La montagna insegna ad ascoltare. Ti parla, ti suggerisce, ti dice. Sicuramente senza di lei è difficile superare la settimana».

In montagna si saluta sempre: si sa che anche i più totali sconosciuti hanno già qualcosa in comune con te, per il solo fatto di trovarsi lì. Foto: Homeland

Finisco di annotare qualche appunto sulle note del telefono, lo annerisco e osservo le persone che mi passano accanto, con quell’andatura un po’ buffa e robotica dettata dagli scarponi da sci. Sento di essermi introdotta in un microcosmo che non mi appartiene, ma che forse potrà appartenermi, un giorno. Già lo fa nei ricordi e nelle prime impressioni, nelle sensazioni che ti riportano un po’ nel mondo. Nell’essenza delle cose, delle persone, dei luoghi. Anche se gli sport invernali non rientrano nel perimetro della mia identità, è stato bello mettere un piede nel perimetro delle passioni di altri esseri umani. Chissà, magari un giorno il mio e il loro si assomiglieranno un po’ di più.

Vivere la montagna (e le proprie passioni) in un modo diverso

Alla fine il festival ha saputo avvicinare anche una neofita come me, perché nasce in un posto pensato per far conoscere una montagna senza impianti e far provare lo scialpinismo a chi non l’ha mai sperimentato. Mi sono sentita un’ospite nella casa di un totale sconosciuto: così, con occhi nuovi e pienamente vergini, ho scoperto una montagna differente da quella che avevo sempre vissuto. Mi ha un po’ allenata a pensare diverso, fuori dagli schemi e dai recinti delle mie passioni. A ridefinire i confini delle abitudini e, di conseguenza, di ciò che sono in grado di immaginare quando chiudo gli occhi.

Mentre annoto sull’iPhone le mie sensazioni e qualche nuova consapevolezza, mi arriva un insolito messaggio WhatsApp. È mia mamma, che mi chiede: “Come influisce su di te questo paesaggio?”. Mi piacciono le domande inaspettate, quelle che qualcuno definisce thought-provoking, quelle che ti mettono di fronte alle tue fragilità, mancanze, capacità e contraddizioni. Che è un po’ come ha fatto con me l’idea di una ciaspolata lontana 150 km dalla mia comfort zone. O un paio di sci indecisi sulla direzione da prendere, come a volte lo sono io. “Questo paesaggio mi ha fatta stare meglio. Più che altro mi ha ricordato che comunque ci sono cose belle nella vita”, rispondo a mia mamma. “E posti nel mondo in cui la solitudine è positiva, posti che a piccole spintarelle ti premono verso uno specchio e ti chiedono cosa ci vedi riflesso“, aggiungo. Allegando la foto di un piatto di filanti pizzoccheri bianchi.