È stata una delle prime modelle nere, alla fine degli anni ’60. Elsa Michael, eritrea, aveva 16 anni quando è arrivata a Milano con pochi risparmi, senza sapere quanto ci sarebbe rimasta e senza avere la più vaga idea di cosa fosse una sfilata. Notata in un bar e mandata a fare un provino in un’agenzia, inizia a posare per vari fotografi, a salire in passerella per Fendi e Laura Biagiotti.
Elsa Michael è tra i dirigenti del marchio Guess
È solo l’inizio di una carriera continuata nel mondo della moda. Dopo aver aperto i punti vendita di Guess in Italia e in Europa, oggi siede nel consiglio di amministrazione del brand. A guardarla non ci si crede, ma ha 72 anni. Vive a Firenze, ha un figlio di 41, un nipote di 9 e una storia che ha finalmente deciso di raccontare fino in fondo per essere d’aiuto ai bambini e alle donne come lei. «Non ho parlato molto del mio passato, neppure a mio figlio» racconta. «Perché sono orgogliosa, ho sempre voluto guardare avanti e non indietro».
La sua associazione Smile Project si occupa di orfani, disabili e donne
Indietro c’è una bambina che a neanche 4 anni perde il padre, ucciso durante una rapina ad Addis Abeba, in Etiopia, dove si era stabilita la famiglia. La madre resta vedova con 4 figli e, mentre la primogenita rimane ad aiutarla col piccolo, le altre due sorelle vengono portate dalla nonna nel villaggio d’origine vicino ad Asmara, in Eritrea. Non molto tempo dopo, non riuscendo a sfamare le nipoti, le inserisce in due orfanotrofi diversi. Elsa viene accolta dalle Orsoline, impara l’italiano e, a 13 anni, deve scegliere: prendere i voti o andare a lavorare. In questa intervista racconta com’è arrivata fino a Milano e, più di 30 anni dopo, com’è tornata a cercare i suoi familiari e le sue origini. «Pur avendo costruito la mia vita in Italia, mi sono sempre sentita straniera. E, rientrata in Eritrea, ho voluto aiutare i bambini come me». Per questo 10 anni fa ha fondato Smile Project, una onlus che si occupa, fra l’altro, di istruzione e formazione di orfani, disabili e donne. Per finanziarla ha creato gli Smile Market: due grandi mercati di abiti e accessori firmati, venduti a prezzi da outlet, prossimi appuntamenti: dal 25 al 27 ottobre al Tepidarium del Roster di Firenze e dall’8 al 10 novembre al Mattatoio di Roma (info su smileprojectonlus.it).
In orfanotrofio Elsa Michael ha avuto il suo primo paio di scarpe
Cosa ricorda della sua prima infanzia?
«Soprattutto il periodo con la nonna. Aveva una capra per il latte e coltivava un piccolo campo, ma spesso restavamo senza nulla da mangiare. Così mi mandava alla bottega del paese per chiedere zucchero o altri prodotti. Stavo per ore lì davanti, a farmi coraggio per entrare, tanto mi vergognavo. Un parente, per aiutarci, si offrì di ospitare me e mia sorella per un po’ e venne a prenderci con un asino per portarci al suo paese. Avevo 4 o 5 anni ma, per orgoglio, non volli salirci e camminai a piedi scalzi per ore».
Pianse quando entrò in orfanotrofio?
«Assolutamente no. Da noi le famiglie hanno tanti figli e non c’è l’attaccamento che c’è qui. Non avevo nostalgia, volevo solo stare bene. E finalmente ebbi un paio di scarpe! Erano strette, ma ero così contenta che non dissi nulla.
Quando arrivavano le famiglie straniere per adottare una di noi, speravo sempre di essere scelta. Una mia amica fu portata a Milano, che allora diventò la meta dei miei sogni.
Elsa Michael ha lasciato l’Etiopia per venire a Milano
Ha iniziato a lavorare a 13 anni.
«Sì, non volevo diventare suora e le Orsoline mi trovarono un lavoro al Cotonificio Barattolo di Asmara. Da noi sei grande a quell’età e per me fu l’inizio della libertà. Ero però fifona e prudente, anche con i ragazzi. Oltre al cotonificio, organizzavo feste da ballo per la comunità italiana e in 3 anni riuscii a mettere via dei soldi. Andai in Etiopia e trovai mia madre che aveva un nuovo compagno. Capii che voleva impormi un matrimonio combinato, ma riuscii a fare il passaporto e andare via. Comprai il biglietto aereo per Milano, per precauzione di andata e ritorno».
Non aveva paura di andare così lontano da sola?
«Eccome, però almeno parlavo italiano. All’aeroporto chiesi a un tassista di portarmi in una pensione economica, ne scelse una in via Durini e lì mi consigliarono il ristorante da Prospero, il più caro di Milano. Dopo qualche giorno mi ritrovai a pranzare solo con il cappuccino al bar. Vicino c’era un’agenzia di modelle, un tipo mi chiese se volevo provare e fu la mia fortuna. Preparando il book, un fotografo si innamorò di me: siamo stati insieme 2 anni e, con lui, ho imparato molte cose».
Per lei l’Italia è il suo secondo Paese
Era consapevole della sua bellezza?
«Macché! La mia preoccupazione era lavorare e diventare indipendente, integrarmi, non avevo tempo di vantarmi o civettare. Ero contenta, perché ero una delle poche ragazze nere ed ero ben accolta nella moda, anche se in giro c’era chi non voleva affittarti un appartamento».
Ha avuto un amore milanese, dal quale è nato suo figlio Michael, e un compagno fiorentino, imprenditore e stilista con il quale ha lavorato allo sviluppo del marchio Guess. Oggi?
«Sono single, faccio la nonna quando me lo chiedono, ma siedo anche nel consiglio di amministrazione di Guess. E soprattutto mi occupo della mia onlus. Tornando in Eritrea per ritrovare fratelli e sorelle, ho visitato un orfanotrofio e tutto è iniziato così: un bambino mi si è aggrappato e ho sentito il bisogno di portare aiuto. Ho cominciato a raccogliere fondi per la ristrutturazione. E creando Smile Project ho avviato altri progetti: una struttura che ospita oltre 110 bambini ciechi, una scuola di taglio e cucito per 150 studenti sordomuti, un progetto di formazione professionale che ha avviato 2.500 donne all’artigianato, in collaborazione con il ministero del Welfare eritreo».
Oggi si sente italiana o eritrea?
«L’Italia è il mio secondo Paese, anche se la mia vita e la mia famiglia sono in Eritrea. Ho ritrovato fratelli e sorelle, hanno una mentalità diversa, eppure cercando le mie radici sono più consapevole. So da dove vengo e non lo dimentico. Il grande dispiacere è non aver potuto aiutare mia nonna e non averle mostrato dove sono arrivata».