Entrare nel backstage di una sfilata, alla vigilia di un grande show, è sempre una magia. Farlo durante il fitting, quando cioè le modelle vengono visionate una a una per costruire gli outfit e prendere istruzioni sul mood e l’attitudine, un vero privilegio. In più siamo a Venezia, città-cartolina per eccellenza, e la collezione che da lì a poche ore andrà in scena lungo il loggiato del Palazzo Ducale non è una qualsiasi ma la collezione Resort di Max Mara, nei negozi da metà novembre. A raccontarcela, il direttore creativo, Ian Griffiths, che mi aspetta seduto nella magnifica sala affrescata di Palazzo Dandolo, insieme al leggendario cappellaio Stephen Jones, autore dei sontuosi copricapi-turbante della Cruise.
Ogni resort ha una città d’elezione. Come mai questa volta avete scelto Venezia?
«Perché è il luogo in cui il lusso è nato, storicamente, come business. Città di scambi e di commerci, crocevia di culture diverse, dove l’Est e l’Ovest si incontrano, Venezia è da sempre la culla della qualità e dell’eccellenza. Ma l’ho scelta anche per ragioni personali».
Cioè?
«Ero un giovane studente di Manchester quando la vidi per la prima volta e me ne innamorai. Al ritorno realizzai quattro abiti ispirati alle sue atmosfere incredibili, in particolare alle sue chiese monumentali, un po’ cupe. Riguardandoli a quarant’anni di distanza li ho trovati ancora così moderni, che ho pensato di tirarli fuori dalla soffitta e chiudere con loro la sfilata».
Collezione resort Max Mara: l’ispirazione
Qual è stato il filo conduttore che ha ispirato questa collezione resort?
«La personalità e i viaggi di Marco Polo.
Era un uomo del XIII secolo, ma il suo spirito cosmopolita è molto contemporaneo. Era un uomo curioso, affamato di conoscenza. Con una mentalità apertissima, anche nei confronti delle donne, che spesso cita nel suo Milione».
E come è entrato tutto questo nella collezione?
«Con l’uso dei materiali pregiati, come il cammello, il cashmere, il velluto, la seta, e nelle linee dei capi, che richiamano quelli del tempo».
Per esempio?
«Le mantelle ampie e avvolgenti, le casacche a vestaglia, gli spolverini in seta, i tabarri. Alcuni pezzi hanno stampe ispirate ai mosaici di San Marco, pattern floreali, cinture con le nappe. A volte i riferimenti sono minimi, come una coulisse o un polsino importante. Ovviamente non potevo esagerare, perché non sono abiti pensati per una serie in costume della BBC, ma per le donne di oggi».
Che tipo di donna ha immaginato?
«Una donna forte e dinamica. Indipendente. Che vuole sentirsi libera».
Quanto ci vuole per creare una collezione resort?
«A livello pratico 3 o 4 mesi, ma in realtà è il risultato dell’esperienza di una vita. Bisogna attingere a tutto il proprio bagaglio di cultura, conoscenze, passioni. E tradurlo in qualcosa che risponda alle esigenze delle consumatrici. È questa la vera sfida, coniugare il bello con il pratico e il funzionale. Una cosa che Max Mara sa fare molto bene».
Collezione resort Max Mara: i look iconici
C’è un suo pezzo preferito?
«Di solito i primi quattro, cinque che sfilano e gli ultimi sono l’essenza della collezione. Se devo fare una scelta, dico lo spolverino di cashmere cammello».
Com’è nata la collaborazione con Stephen Jones?
«È la prima che faccio con lui ed è andata così bene che spero non sia l’ultima. Ha creato copricapi drappeggiati di varie dimensioni. Quelli enormi sono regali, elegantissimi».
Si dice che oggi la moda vada troppo veloce e sia elitaria, lei cosa ne pensa?
«Max Mara ha sempre puntato sulla longevità dei suoi capi, è di tendenza ma non insegue le mode. Non ne ha bisogno. Parla a tutti e non invecchia. Il nostro obiettivo è fare vestiti che durano».
Ultimamente c’è stato un grande turnover di direttori creativi, che talvolta finiscono per adombrare il brand. Lei non sembra soffrire di protagonismo.
«Non m’interessa fare la superstar, ma la colpa di questo meccanismo è dell’industria della moda. Come si può pretendere di avere subito dei risultati, senza dare al designer il tempo di conoscere la storia del brand e il target a cui si rivolge. È per questo che prevale l’identità dello stilista, per la fretta. Il guaio è che quando poi se ne va, le consumatrici seguono lui e abbandonano il brand. Bisogna rallentare un po’».
È il fast fashion che ha “drogato” il mercato?
«Io non me la prendo con il fast fashion. Anzi, quando imitano i nostri capi mi fa piacere, significa che stiamo dialogando con un pubblico ampio».
Tutti oggi si rivolgono ai consumatori Gen Z, voi a chi parlate?
«Più alle donne che alle ragazze, ma senza porci barriere anagrafiche. Facciamo pezzi adatti a diverse età, che passano da generazione in generazione. A unirle è il gusto e l’eleganza».
Inclusivo nelle età ma anche nelle taglie: le linee morbide stanno bene a tutte.
«Come designer privilegio le forme sciolte, i volumi che non costringono. Si può ingrassare e dimagrire restando sempre comode nei nostri capi».
Vive da più di 35 anni in Italia, cosa le piace di più del nostro Paese?
«L’amore per le cose fatte bene. Quando sento due modellisti litigare sulla costruzione di un collo, allora sono felice, perché capisco che c’è grande passione per quello che stanno facendo».
Il brand ha avuto tante grandi ambassador, c’è ancora una donna che le piacerebbe vestire? «Patti Smith».