A cura di Antonella Marchisella
Shopping si… Shopping no….! Dapprima ritenuto una pratica a rischio quando assume i connotati di un comportamento compulsivo, ora ritenuto un alleato per rigenerare corpo e mente. Ma qual è la linea di confine? Ne abbiamo parlato con la Dottoressa Serena Basile, Psicologa clinica, docente del Laboratorio in Tecniche di osservazione della realtà educativa dell’Università Cattolica di Milano e Responsabile scientifica dell’iniziativa “Aperitologo, l’aperitivo con lo psicologo dentro”.
Dottoressa Basile, che cos’è esattamente la Shopping Terapia e come nasce?
Possiamo definire la Shopping Terapia come quell’attività d’acquisto inserita all’interno di un percorso di cura e finalizzata al miglioramento delle condizioni fisiche e psicologiche del soggetto. Nasce negli Stati Uniti, dove il termine viene utilizzato per la prima volta la vigilia di Natale del 1986 dal Chicago Tribune e dove un paio di anni fa è stata addirittura introdotta in alcuni ospedali.
Dal 1999 al 2008, inoltre, alcuni ricercatori dell’Institute of Population Health Sciences di Taiwan, in Cina, hanno condotto una ricerca longitudinale su un campione di quasi 2000 soggetti over 65, metà donne e metà uomini, rilevandone effetti positivi sulla longevità e sul benessere psicologico.
Come si esplica e quali sono i suoi benefici?
Fondamentalmente la Shopping Terapia prevede che le persone vengano invitate a dedicare del tempo allo shopping, avendo cura di riconoscere e condividere la funzionalità di questa pratica all’interno di un percorso di cura. Gli ospedali americani hanno introdotto lo shopping online, i ricercatori di Taiwan hanno invece esaminato gli effetti sul campione del recarsi fisicamente nei negozi con una certa regolarità.
Seppur con modalità diverse, in entrambi i casi la natura dello “strumento” è chiara: far sì che il paziente si prenda cura di sé, orientando l’attenzione sul mondo esterno e operando processi di scelta. Nei pazienti depressi tutto questo è un toccasana: la depressione induce spesso alla chiusura, all’introspezione, alla passività… E lo shopping ribalta tutto.
Fare shopping richiede un atteggiamento attivo e vigile, un’apertura verso l’esterno cui fa da contorno la necessità di scegliere i prodotti selezionandoli sulla base della loro rispondenza alle esigenze del Sé, come ben ci insegnano i professionisti del marketing. Se a questo aggiungiamo gli effetti dell’attività fisica e dell’interazione sociale inevitabilmente connesse alla pratica di recarsi nei negozi, non possiamo negare l’utilità dello shopping nell’economia del funzionamento dell’individuo.
Negli USA hanno dunque introdotto questa pratica perfino in ospedale. Eppure fino a poco tempo fa, si parlava di Shopping Compulsivo e di tutti i danni annessi a questo. Quando si usa lo shopping come coadiuvante per una terapia, magari per uscire da uno stato depressivo, non è facile cadere nell’eccesso acquisire una dipendenza da questo?
Shopping Compulsivo e Shopping Terapia contengono nella loro definizione due “Shopping” veramente molto diversi! Lo Shopping Compulsivo è un disturbo bello e buono, che si traduce in pensieri e comportamenti che la persona non riesce a controllare ed evitare. Spesso senza che vi sia consapevolezza si compra di tutto: dal prodotto che piace al prodotto che né piace né serve.
Così si svuota il portafogli anche ben oltre la propria disponibilità economica reale e dedicando all’attività ben più tempo di quanto disponibile, incidendo dunque negativamente su attività sociali e lavorative. E come se non bastasse, una volta esaurito l’impulso, quel che resta è vergogna e senso di colpa, altro che benessere!
Con persone che lamentano questi vissuti che spesso si fondano su sentimenti di vuoto e su fragilità identitarie, lo shopping costituisce di fatto lo strumento terapeutico che l’individuo inconsapevolmente sceglie e del quale rimane schiavo senza riuscire a trarne giovamento: la compulsione seda solo temporaneamente la tensione interna, e un’attività che potrebbe in sé avere un’utilità scade progressivamente nel danno.
Il troppo stroppia, sempre. Lo shopping può dirsi terapeutico solo nel momento in cui incide positivamente sullo stato delle persone. Ad esempio, per quelle persone che lamentano vissuti depressivi, con una forte centratura sull’interno e una chiusura verso il mondo esterno, cui spesso si accompagna una dimensione comportamentale apatica e inattiva: in questi casi, lo shopping “apre”, “muove”, chiede di scegliere “per sé”, ha un’utilità.
Lo shopping può dunque essere utilizzato come strumento, ma come tutti gli strumenti va consigliato a chi può utilizzarlo con beneficio. Il rischio di veder evolvere la pratica di shopping da strumento terapeutico a disturbo compulsivo? Ovviamente c’è, prevalentemente nei casi di “autosomministrazione”: è esperienza assai comune dirsi “Sono triste, allora vado a comprare qualcosa di carino così da tirarmi su…”.
Tuttavia se a dirselo è chi asseconda una tensione interna forte che in questo modo evita di accettare come parte di sé e comprendere, il rischio di trovare nello shopping una pratica in prima battuta privilegiata e successivamente subìta è grosso. Diverso è il caso dello shopping consigliato all’interno di un percorso psicoterapeutico, dando per scontato che nessun terapeuta consiglierebbe mai questo strumento a pazienti che non abbiano le risorse per gestirlo adeguatamente.
Chi consiglierebbe, in fondo, attività fisica (in sé, pratica decisamente sana e utile) a un’adolescente anoressica che vive con l’ossessione del corpo e del controllo del peso? E’ un po’ la stessa cosa.
Lo shopping risulta maggiormente terapeutico per le donne piuttosto che per gli uomini?
I ricercatori di Taiwan sostengono esattamente il contrario! Dai dati diffusi, risultano essere più gli uomini a riportare effetti positivi rispetto alle donne in termini di attività fisica e di interazione sociale! In proposito, però, ritengo che abbia molto più senso operare qualche distinguo sulla diversa natura dello shopping per uomini e donne, abbandonando il desiderio di una risposta certa alla sua domanda.
Nel senso che uomini e donne amano acquistare prodotti diversi, perché diversi sono i prodotti che rimandano ai loro bisogni identitari. Chiedete a un uomo un po’ giù di corda di andare a far la spesa e di comprare assorbenti intimi, oppure di provvedere da solo all’acquisto di capi d’abbigliamento: tornerà a casa entusiasta? Chiedetegli invece di comprare due cacciaviti o le gomme per l’auto: potrà impiegare anche un pomeriggio intero prima di operare una scelta, perso con grande soddisfazione in mille valutazioni.
Ecco: lo shopping “sano” ti regala l’entusiasmo del gesto d’acquisto prima e dopo, nonché la soddisfazione di aver operato una buona scelta e il benessere legato all’essersi distolti per un lasso di tempo ragionevole dal proprio malessere. Lo shopping che non dà tutto questo non vale i soldi spesi.
Dott.ssa Serena Basile
Psicologa clinica
Riceve a Milano in V.le Cirene 18.
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