«Biba non sono solo vestiti, ma un intero stile di vita». Così Barbara Hulanicki ha definito Biba, la sua creatura, il marchio sinonimo di glamour che tra gli anni ’60 e ’70 rivoluzionò la moda catturando lo spirito ribelle e anticonformista di quella mitica decade. A raccontare la storia di una leggenda la cui influenza non si è mai spenta, perché ha cambiato il modo di concepire la moda continuando a ispirare generazioni di designer, ci pensa la grande mostra Biba Story, 1964-1975, a cura di Martin Pel, con la supervisione della stessa Hulanicki, allestita al Fashion and Textile Museum di Londra fino all’8 settembre.
La moda democratica di Biba
Un viaggio nel mondo di una designer avanguardista nata in Polonia nel 1936, figlia di un diplomatico assassinato a Gerusalemme, che arrivò da piccola in Inghilterra per stare con un’altezzosa ricca zia appassionata di gioielli ed eleganti vestiti. Studentessa di arte e moda al college, a 19 anni Hulanicki vinse un concorso del giornale Evening Standard con il disegno di un colorato completo da spiaggia. Da quel momento iniziò una carriera come illustratrice di moda recandosi alle sfilate di Parigi per conto dei giornali londinesi. Osservando da vicino la couture, capì che quegli abiti non erano alla portata di tutte, anzi: erano lontani dai desideri delle giovani che, come lei, volevano vestiti più giocosi e freschi. Ed ecco la sua intuizione geniale: democraticizzare la moda, renderla accessibile a tutti. Per farlo nel 1963, insieme al marito, il pubblicitario Stephen Fitz-Simon, aprì la Biba’s Postal Boutique attraverso cui incominciò a vendere per corrispondenza una linea che aveva come nome il vezzeggiativo con cui Hulanicki chiamava la sorella minore Biruta. Erano abiti chic dal costo contenuto, pensati per chi aveva un budget limitato, come le ragazze che iniziavano a lavorare, dovevano pagare l’affitto e fare la spesa, senza rinunciare a vestirsi seguendo le ultime tendenze.
Il primo negozio a Kensington
L’inizio del successo clamoroso iniziò con un tubino a quadretti rosa abbinato a un fazzoletto da legare in testa, simile a quello indossato a Saint Tropez da Brigitte Bardot. Pubblicato sul Daily Mirror, diventò subito richiestissimo: lo ordinarono oltre 17.000 donne. Poco dopo, nell’estate del 1964, venne aperto il primo negozio Biba a Kensington, in Abingdon Road, nel cuore della Swinging London, quando la capitale inglese era l’epicentro dei trend globali e oscillava al ritmo di un nuovo sound pronto a conquistare il mondo, quello dei Beatles e dei Rolling Stones. Se Mary Quant aveva accorciato drasticamente gli orli delle gonne invitando le donne a scoprire le gambe e a sentirsi più libere, Biba si spinse più in là, avvicinando la moda alle strade, proponendo look completi in cui il suo tocco personale si univa a echi Art Nouveau e Déco, spruzzi della Hollywood anni ’30 e romanticismo dei pittori preraffaeliti. Dai corpetti luccicanti ai cappotti leopardati, dai tailleur pantalone ai vestiti da sera di raso tagliati di sbieco come quelli delle dive, fino ai cappelli, agli stivali alti e ai boa.
Dalle segretarie a Mick Jagger
Un’evoluzione della moda che, in un decennio, è passata attraverso stampe psichedeliche, pop art, tonalità scure della melanzana, del prugna, del nero, del ruggine e della senape. E se gli abiti e gli accessori Biba, il cui assortimento cambiava velocemente, pensati per far sentire tutte le ragazze cool e incredibilmente affascinanti, venivano snobbati dalle riviste di moda perché costavano poco, ci pensò lei a promuoverli creando cataloghi lussuosi, veri e propri oggetti da collezione, con gli scatti di Helmut Newton, Sarah Moon e testimonial d’eccezione come la super modella Twiggy, che posava languida su divani di velluto, vestita con abiti simili a quelli di alta moda, fatti di paillettes. Non solo. Biba stravolse le convenzioni dello shopping trasformandolo in un evento sociale. In breve il negozio, che si spostò in boutique sempre più grandi, si trasformò in un tempio della moda: frequentato da rockstar come Freddie Mercury o Mick Jagger e attrici celebri come Julie Christie o Barbara Streisand, divenne meta di ragazze e ragazzi (la linea maschile arriverà nel 1971) che venivano da tutto il mondo e si mettevano in fila per entrare.
Big Biba, tempio del lifestyle
Il primo oggetto di una serie firmata con il suo logo fu un’agenda che conteneva tutti gli indirizzi imperdibili di Londra, ristoranti e locali notturni da visitare, una sorta di guida su come vivere appieno lo stile di vita di Biba. E nel negozio si poteva trovare di tutto, dal cibo in scatola ai trucchi, compresi quelli per chi aveva la pelle nera. Biba diventò un mood, un’atmosfera, incarnando alla perfezione lo spirito di un’epoca, di quella moltitudine audace che voleva cambiare il mondo e si sentiva fantastica e splendente tra lustrini, piume e camoscio. In boutique non si andava solo per fare acquisti, ma per ritrovarsi tra amici, ascoltare musica, immergersi in un mondo di suoni, profumi, visioni che fece di Biba il primo marchio lifestyle al mondo.
Biba non sono solo vestiti, ma un intero stile di vita
Barbara Hulanicki
Il Big Biba, il maestoso emporio su 7 piani dedicato all’arredamento per la casa, a trucco e accessori e all’abbigliamento per donna, uomo e bambino, decretato dai giornali come “il negozio più bello del mondo”, era simile a una fantasmagorica discoteca. Arredato con specchi e mobili d’epoca, aveva un asilo nido per i clienti e uno dedicato anche alle centinaia di dipendenti di Biba, tra le quali ci fu anche una giovanissima Anna Wintour, che lì faceva la commessa. Lo store ospitava persino un ristorante dall’incantevole soffitto arcobaleno e un mega giardino pensile, all’epoca il più grande d’Europa, dove si poteva prendere un tè tra piante e fenicotteri.
Un sogno che non svanisce
Nel 1975 Big Biba chiuse i battenti dopo che la sua fondatrice decise di vendere la maggior parte delle quote della società, complice anche la crisi economica che aveva colpito il Regno Unito. Ma se Barbara Hulanicki cominciò a dedicarsi al design d’interni, i suoi abiti non hanno perso il fascino. Continuano a circolare attraverso appassionate di vintage, con collezioniste d’eccezione tra cui Kate Moss, perché parlano non solo di moda, ma di un’epoca di libertà in cui le donne si sentivano favolose. E tutto sembrava possibile.