Due eventi apparentemente scollegati sono comparsi negli stessi giorni sui media a margine delle notizie principali, presentati entrambi come fossero curiosità di cui sorridere. Il primo è che la Norvegia ha deciso di imporre ai marchi commerciali che lavorano sul suo territorio l’obbligo di dichiarare i ritocchi fotografici, per non rafforzare un ideale irrealistico di perfezione che spinge le persone più giovani, soprattutto le ragazze, verso l’insicurezza di sé, i disturbi alimentari e un ricorso crescente e sempre più precoce alla chirurgia estetica. Il secondo evento invece è di segno opposto: in Cina è stata creata e lanciata la prima influencer totalmente digitale, Ayayi, una bellissima ragazza che – pur non esistendo – ha conquistato 40.000 follower nella sola giornata di presentazione.
Ayayi, oltre a essere iperrealistica, è dotata di intelligenza artificiale ed è in grado di interagire online con gli esseri umani in una forma più evoluta di quella dell’assistente virtuale Siri. Il lancio dell’identità digitale, che viene definita “meta-umana”, non è avvenuto su un social network, ma direttamente su una piattaforma di e-commerce, perché il suo scopo è quello di orientare i consumi dei follower. Non è il primo esperimento orientale in questa direzione: l’influencer digitale Lil Miquela su Instagram ha più di 3 milioni di follower, ma Ayayi ha una maggiore precisione nei tratti ed è quindi più ingannevole, al punto che molti utenti non hanno capito subito di avere a che fare con un personaggio non reale.
Gli influencer digitali hanno il vantaggio – se così lo vogliamo chiamare – di non invecchiare e non avere scomode imprevedibilità: non appaiono mai meno che perfetti, non fanno gaffes, non creano scandali e soprattutto sono sempre al lavoro, garantendo interazione con gli utenti 24 ore su 24 in modo così evoluto da poter commentare persino i meme, i video e altri contenuti generati dai fan.
Mentre la Norvegia cerca di disinnescare il meccanismo della finzione dichiarandola, la Cina lavora perché ciò che è finto appaia sempre più verosimile, fino a rendere inutile chiedersi dove finisca l’artificialità e cominci il reale. È sin troppo facile dichiarare inquietudine davanti a un’evoluzione tecnologica che imita l’umanità per ingannare gli umani e verrebbe la tentazione di giudicarla come una devianza pericolosa, ma questo non sarebbe utile a capirla.
Come tutte le domande profonde, quella della caduta delle differenze tra virtuale e reale può trovare eco, se non risposta, nella letteratura: per esempio, in Klara e il sole (Einaudi), del premio Nobel Kazuo Ishiguro, dove lo scrittore inglese affronta senza giudizio lo snodo della sostituibilità persona/macchina. La domanda non è se Ayayi esista o no, ma se noi siamo sicuri che gli account dove creiamo i nostri alter ego digitali – tutti con la frase giusta, i filtri a ogni foto e una vita presentata solo al meglio – non siano altrettanto virtuali di un soggetto che la virtualità almeno la dichiara.
Michela Murgia, l’autrice di questo articolo, è una scrittrice. Il suo ultimo libro è Stai zitta (Einaudi)