Rivogliamo i pantaloni. E la nostra testimonial è Lady Gaga. Una che all’annuale evento “Woman in Hollywood” organizzato a Los Angeles dalla rivista Elle si presenta con un completo maschile, oversize, grigio, firmato Marc Jacobs. Roba che neanche un minuto dopo, hanno iniziato a commentare tutti – non esattamente bene – la sua scelta. Lei evidentemente se ne accorge, sale sul palco e scandisce un discorso lento, solenne. Che parte proprio dal vestito. Sostiene di avere capito in quel momento ciò di cui avrebbe dovuto parlare. «In this suit I feel like me today» dice. Ovvero, in questo abito mi sento me stessa, oggi. E continua: lei che ancora non ha il coraggio di rivelare il nome di chi l’ha sessualmente aggredita a 19 anni, lei che convive con i dolori cronici della fibromialgia, lei che da sempre ha dovuto ascoltare gli uomini dirle cpsa avrebbe dovuto o non dovuto fare, adesso annuncia: «Mi riprento ascoltare gli uomini dirle cosa avrebbe dovuto do il mio potere. Oggi i pantaloni li porto io».
Il nuovo power dressing
In inglese si direbbe statement, cioè una decisa dichiarazione di intenti. Con la quale Gaga ha ridefinito il concetto di “power dressing”, il vestirsi al maschile della donna negli anni ’80. Quello stile che ha portato Armani a essere Armani: i tailleur severi, le grandi spalle, che indossavano al cinema Melanie Griffith e Sigourney Weaver (1988, Una donna in carriera) e che, nella vita quotidiana, erano l’armatura con cui si proteggevano le donne in carriera in carne e ossa. Per non sembrare femmine, in un mondo del lavoro nel quale donna significava assistente, non manager. Il gesto di Gaga oggi ci dice che l’era della resilienza è finita, è arrivato il momento di prendere il potere. E nessuno meglio delle donne conosce il valore di un capo d’abbigliamento quando si tratta di rivoluzione. I movimenti femministi americani anti-Trump sono nati con un berretto rosa. Ma, indietro negli anni, ci sono i reggiseni bruciati del ’68. Poi, agli inizi del nuovo secolo, i jeans dell’annuale Denim Day, la campagna partita in Italia e diffusa nel mondo da Guess, dove i pantaloni diventano il simbolo delle battaglie antistupro.
Una storia con radici lontane
Il vestirsi al maschile non è solo protesta. È anche una storia di glamour. L’eroina del genere fu Marlene Dietrich, che portava giacche doppiopetto bianche, frac, fumava il sigaro. Ma la sua era trasgressione voluttuosa: non faceva l’uomo, lo provocava. E così Madonna, in uno scatto che omaggia la diva tedesca, dove la femminilità è esaltata dalla maschera dell’ambiguità. Una sfida che è un fenomeno culturale dalle radici lontane. Si va dal mito di Orlando di Virginia Woolf (1928) alla Julie Andrews en travestie di Victor Victoria (1982), da Gwyneth Paltrow in Shakespeare in love (1998) a Shania Twain che cantava, in smoking, Men! I feel like a woman (1997), per citare solo alcuni esempi. A proposito di smoking da donna: un culto, nato con Yves Saint Laurent nel 1966, poi riproposto ciclicamente. Nell’autunno 2006 Viktor&Rolf lo disegnarono per la collezione di H&M, quest’inverno lo riporta in passerella Ralph Lauren. Un po’ come il completo da uomo in versione “lei”, diventato ormai un must delle sfilate.
Un segno di apertura
I pantaloni che vuole e si prende Gaga assomigliano forse più a quelli della scrittrice Lara Cardella di Volevo i pantaloni, il bestseller italiano del 1989. Sono i pantaloni della possibilità, quella, prima ancora di avere il potere, di prendersi la libertà di essere e fare ciò che si vuole. Lo sanno, meglio di tutti, le nuove generazioni, fluide di genere e pure di pensiero. Così non stupisce che Cara Delevingne al matrimonio della principessa britannica Eugenia di York arrivi con frac, cilindro e sia la più fresca ed elegante di tutte le invitate. Oltre che di tutti gli invitati. Se è vero che il nuovo maschile non è sensualità né provocazione, non è imitazione né desiderio di affermazione ma libertà, allora forse stiamo finalmente raggiungendo quello che auspicava, nel 1958, la scrittrice Rona Jaffe: ci stiamo prendendo Il meglio della vita, come si intitolava il suo romanzo. Che sia il lavoro, l’amore o un abito a cui qualcuno ha dato l’etichetta di maschile. E con il quale, invece, noi ci sentiamo benissimo.