Perché una persona disabile non dovrebbe avere il desiderio di vestirsi in modo bello e gradevole? Perché siamo abituati a pensare alle persone con disabilità come a una categoria uniforme, asessuata, che quindi ha bisogno solo di abiti pratici e senza identità? «Eppure, la disabilità è semplicemente parte della condizione umana. Il pregiudizio ci fa vedere le persone con disabilità come una minoranza, parte di un mondo a sé. Invece sono semplicemente persone, e come tali hanno il diritto di esprimere la loro unicità – perché no? – anche attraverso il vestire» dice Alessio Musio, docente di Etica all’Università Cattolica di Milano.
Qualcosa però sta cambiando. Stanno cominciando a capirlo alcuni marchi, spinti da una sensibilità e un’esperienza tutta personale: come Tommy Hilfiger, che ha appena lanciato la linea di moda Adaptive dedicata a bambini, uomini e donne con disabilità motorie. Capi pensati con aperture facilitate, velcro, tessuti morbidi, niente cerniere e bottoni.
Il fatto che ad aprirsi a questo mercato sia Hilfiger non stupisce perché lo stilista ha una figlia con disturbi dello spettro autistico (come pure il figlio della moglie), ed è impegnato in attività di sensibilizzazione rispetto all’autismo. «Di sicuro un fatto positivo, un’apertura verso un cambiamento culturale. Va però sottolineato che spesso ci si occupa della disabilità solo quando se ne è in qualche modo toccati personalmente, altrimenti l’attenzione latita».
Negli Stati Uniti le persone disabili sono circa il 20 per cento della popolazione. E non tutti sono in carrozzina. Molti sono disabili psichici. Lauren Thierry, presentatrice della CNN, ha creato una linea di abiti particolare: Independence day clothing, nata dall’esperienza diretta con il figlio autistico. Abiti unisex, indossabili da soli, appunto, per promuovere l’indipendenza. Alcuni pure con gps incorporato, per garantire la sicurezza delle persone con autismo.
La giovanissima stilista Camila Chiriboga, poi, sta lavorando con persone cieche a disegnare abiti adatti a loro, che “parlano” con lo smartphone. Ha lavorato con sofferenti di paralisi cerebrale e ha già disegnato una collezione per malati di diabete e per pazienti in dialisi.
E in Italia? All’ultima Milano Fashion Week l’agenzia Iulia Barton ha organizzato una sfilata con modelle e modelli disabili, in collaborazione con Fondazione Vertical, onlus italiana per la cura delle paralisi midollari. Un evento unico, nuovo, a cui ha partecipato anche Tiphany Adams, modella in carrozzina, di Honolulu, molto seguita sui social, nota negli Stati Uniti per aver girato la fiction Push Girls e Shaholly Ayers. Lontano dai riflettori, stanno nascendo anche aziende specializzate, come Mec Service, che propone abiti e accessori anche semplicemente per chi si trova con un braccio o una gamba ingessati. Oppure Lyddawear, che vende anche online capi per donne e uomini in difficoltà motoria ma anche ammalati di Alzheimer o Parkinson, persone cioè che non riescono più a compiere movimenti fini o coordinati.
E siccome l’innovazione viene dal basso, spicca il progetto promosso da UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) “Diritto all’eleganza” che ha coinvolto due istituti superiori professionali di moda (e sarà esteso presto dal prossimo anno ad altre scuole): l’Istituto Tornabuoni Cellini di Firenze e l’ISISL De Medici -Sezione Moda di Ottaviano (Napoli) nell’ambito del percorso di Alternanza Scuola Lavoro. Il primo istituto ha realizzato quattro abiti, il secondo due, tutti indossati da sei modelle d’eccezione nel corso di una sfilata di moda svoltasi a Lignano Sabbiadoro durante le recenti Manifestazioni nazionali UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). Capi colorati, morbidi e belli da vedere, che nascono dal piacere di piacersi, dal prendersi cura di sé, primo passo verso un progetto più completo di consapevolezza e realizzazione di sé.
Perché il piacere di guardare e farsi guardare è la cifra dell’essere umano. «In fondo, una persona si scopre amabile quando è amata, perché è amata: vuol dire che quando qualcuno ci guarda con amore, questo tipo di sguardo può far fiorire la nostra unicità, così diversa dalla serialità dei prodotti industriali, anche della moda» prosegue il professor Musio. «Perché quindi le persone con disabilità non dovrebbero avere il desiderio di farsi guardare, di sentirsi a proprio agio anche esteticamente con i vestiti che indossano? Gli abiti raccontano di noi, valorizzano il senso della singolarità, la bellezza del nostro particolare modo di essere uguali che si accompagna sempre con un’unicità che non va mai mortificata».
Invece sulle persone disabili applichiamo un’etichetta, quella della figurina in carrozzina, né uomo né donna, senza età. Quasi un ologramma, come se la disabilità fosse solo motoria. Invece ne esistono più di 500 tipi, comprese quelle mentali. La disabilità, infatti, oggi è molto vasta: comprende le malattie degenerative, croniche, congenite, quelle legate all’invecchiamento della popolazione. Secondo l’Ocse, entro il 2050 l’Italia sarà il terzo paese più anziano del mondo dopo Giappone e Spagna: oggi ci sono 38 persone ultra 65enni ogni 100, nel 1980 erano 23 e nel 2050 saranno 74. Dati allarmanti che aprono scenari a livello sociale, sanitario, di sostenibilità del nostro welfare, su cui tutti noi siamo chiamati a interrogarci.