Qual è la tua idea di paradiso? Una capanna di legno su uno sperone di roccia a 2.575 metri, circondata dalle montagne più belle del mondo, ci si avvicina? Allora il rifugio Nuvolau, tra le Dolomiti di Cortina, soddisfa la tua immaginazione. La mia, di sicuro: da qui ho visto un panorama che non ha eguali, lo sguardo spazia a 360 gradi, rincorre una cima, l’altra e l’altra ancora, poi il cielo, le valli lontane. Da lassù vedi tutto, compresa la risposta alla domanda: perché mai sono salita fin qui?
Il Nuvolau è il rifugio in quota più antico delle Dolomiti
Il Nuvolau è appollaiato tra le vette dal 1883, primo rifugio in quota della zona ampezzana e gioiello rinomato tra gli escursionisti. Ma in questo 2021 è diventato un piccolo “caso” di cui si è parlato anche fuori dalla cerchia degli amanti del trekking. Lo storico rifugista Mansueto Siorpaes ha lasciato dopo 47 anni e il Cai di Cortina ha dato il via alla ricerca per la nuova gestione. «Abbiamo ricevuto 254 domande in 2 mesi, un numero molto alto, il precedente bando per un rifugio in zona ricevette appena 8 candidature» racconta Paola Valle, presidentessa del Cai di Cortina.
Per come ho descritto il Nuvolau c’è da meravigliarsi? In realtà, sì: un conto è salire a scattare un selfie in una limpida domenica d’estate e un altro viverci per 90 giorni di fila, tanto dura il periodo di apertura. «Ci hanno scritto da tutta Italia: chef con esperienza di cucina, ragazze che hanno lavorato in hotel, famiglie pronte a trasferirsi con i figli piccoli. Ma là non c’è spazio nemmeno per tirare un calcio al pallone» continua Valle.
La parabola di questa sfera che vola 300 metri di sotto e rotola fino al super instagrammato passo Giau illustra bene il lato meno romantico della storia. Il Nuvolau, più vicino al cielo che alla Terra, è un paradiso che non permette di scappare se ne diventi il custode. Dispone di soli 24 posti letto, pochi metri quadri di sassi attorno e ancor meno litri d’acqua dentro. Si rifornisce solo con la teleferica. In più, attira migliaia di turisti, perché il sentiero più battuto non è proibitivo.
Alcuni si nutrono della bellezza del luogo, altri pretenderebbero menu stellati. Accoglierli tutti non è semplice. Se per caso sei tra coloro che sono stati scartati, chissà, forse ti è andata meglio così. «La maggior parte di chi ci ha scritto è stato spinto dalla crisi e dal bisogno di un lavoro, non aveva ben chiaro l’impegno richiesto. Eppure tra le righe ho letto anche il desiderio di cambiare vita, di un’esistenza più semplice nella natura» conclude Paola Valle. Il rifugio alla fine è stato affidato a Emma Menardi “Diornista” (soprannome ladino di famiglia), 28 anni, di Cortina: questa sarà la sua prima estate al Nuvolau e se ci condurrà una vita tranquilla è da vedere. Ma, del resto, non è quello che va cercando.
Emma Menardi, la nuova rifugista del Nuvolau
Emma Menardi ha saputo di essere stata scelta mentre pedalava lungo la Carretera Austral in Cile, una strada spettacolare che attraversa per oltre 1.000 chilometri una delle zone più selvagge del Paese. Cosa ci faceva lì in tempi di Covid? Causa pandemia, Emma è in Sudamerica da febbraio dello scorso anno: «Ero partita per l’Argentina. Mi piace viaggiare da sola» racconta. «A Buenos Aires ho incontrato una ragazza e ci siamo dirette verso la Terra del Fuoco per un trekking. Arrivate all’Isola Navarino siamo rimaste bloccate dal lockdown: 2 mesi in tenda. A maggio sono potuta ripartire ma, vista la situazione in Europa, ho pensato di restare in Patagonia e visitare anche il Cile, che non era nei programmi. Bellissimo, sai?».
No, dopo 15 mesi di smart working a Milano non lo so, ma tra un’immediata simpatia per il sorprendente accento spagnolo che Emma ha acquisito lungo la via e una bella dose d’invidia, mi limito a chiedere se dopo un anno a girovagare tra l’Antartide e la Cordigliera delle Ande, il Nuvolau non le starà un po’ stretto. Da questa domanda si capisce che, sebbene io in quella meravigliosa casetta di legno ci abbia pure dormito, il mio immaginario, come forse quello della maggior parte dei 253 scartati, non vola abbastanza alto.
Qui non basta il desiderio di avventura né l’amore per la natura, serve una radice piantata nel cuore. Che le chiavi siano state affidate a una persona che appartiene a quei monti da generazioni può sembrare una scelta arcaica, ma la capisco. Infatti, alla mia domanda Emma ride: «Svegliarmi tra le mie montagne mi farà bene». Per lei è un sogno che si avvera. Sa cosa significa mandare avanti un rifugio, ha lavorato al sottostante Cinque Torri e spesso guardava su: al Nuvolau puntava da tempo. «Credevo che Mansueto avrebbe raggiunto i 50 anni di servizio. Ma quando a dicembre è uscito il bando mi hanno subito chiamata da casa: “È la tua occasione!”. Credevo di non farcela perché ero lontana. Mi hanno aiutato i miei fratelli».
I 2 fratelli e le 2 sorelle affiancheranno Emma nella gestione. L’entusiasta squadra di ragazzi tra i 33 e i 22 anni è stata uno dei punti forti della candidatura. C’è pure un fidanzato cileno, appena incontrato, che potrebbe aggiungersi. Gente giovane che conosce il territorio e ha viaggiato per il mondo. Sei lingue e dialetto ladino. La garanzia di non fuggire dopo pochi giorni (è successo a più di un aiutante) sulla carta c’è: l’accordo di partenza prevede 6 anni. Rinnovabili.
Il passaggio del testimone tra rifugisti
“Anche la cima che sovrasta la più irragionevole parete ci invita a salire. E se noi riusciremo a vincerla la gioia del successo sarà intimamente più bella” c’è scritto all’ingresso del Nuvolau. Una passione un po’ irragionevole è ciò che a Emma servirà più di tutto anche secondo Mansueto Siorpaes, 77 anni, maestro di sci d’inverno, rifugista d’estate per una vita. «Oltre a dei bagni nuovi» sottolinea. «Perché, anche se è in mezzo ai monti, la stagione al Nuvolau è come fare un lungo viaggio in barca». Con la moglie Joanne, conosciuta in Canada, e i 3 figli, dal 1973 a oggi Mansueto ha portato al rifugio l’elettricità, la pompa dell’acqua e persino una lavatrice.
Nei suoi ricordi, fulmini da far paura, albe incantevoli, infiniti panini con la salamella. E avventure con la mitica teleferica, tipo imbarcare nel cestello la moglie incinta con perdite sospette. Ma quello che si è portato via chiudendo per l’ultima volta la porta è l’ora del tramonto. «Alle 5, quando restavano pochi escursionisti, mi piaceva guardare le montagne con il binocolo. Una sera 2 ospiti mi hanno indicato il Bicchiere, rifugio di vetta più alto dell’Alto Adige al confine con l’Austria. Quest’estate sarò libero di andarci». Nel passare idealmente il testimone, Mansueto si riferisce ad Emma chiamandola “la signorina”. Per un uomo di montagna come lui è una cortesia d’altri tempi, e io abbozzo un sorriso indulgente.
I rifugisti storici
La nuova squadra
Come si diventa rifugista?
Per diventare rifugista bisogna rispondere ai bandi delle sezioni locali del Cai pubblicati sul sito del rifugio o sulla stampa. Il rifugista paga un canone d’affitto e guadagna in base all’attività. Ci sono rifugi che incassano come alberghi, con 5-6.000 pernottamenti in una stagione, e quelli che ne fanno 600 in un anno. È quindi essenziale informarsi sul luogo.
«Il Cai richiede che il rifugista prima di tutto presidi il territorio» spiega Giacomo Benedetti, presidente della Commissione Centrale Rifugi e Opere Alpine del Cai. «Deve essere un riferimento di primo soccorso, valorizzare e manutenere i sentieri, conoscere le vie d’accesso o di partenza, promuovere i prodotti locali. Oggi sono apprezzati i servizi di ospitalità, ma è ancora privilegiata la conoscenza del luogo».
Il contratto è atipico, una via di mezzo tra affitto e gestione d’azienda, di 3 o 5 anni. Nei circa 420 rifugi del Cai oggi c’è uno zoccolo duro di “storici”. Manca una fascia di giovanissimi. E le donne? «Ci sono sempre state, spesso il rifugio è a conduzione familiare. Ora però cominciano a emergere come titolari» conclude Benedetti.