Le emoji che usiamo in chat e mail sono finite al Moma di New York, uno dei musei più famosi del mondo. Chi non ha mai mandato un sms con dentro un’emoji, che sia la faccina sorridente o il cuore, scagli la prima pietra. Certo, a volte ci chiediamo se sia proprio necessario rispondere con una faccina imbronciata a chi ci domanda «Come stai?». Ma in quel caso dobbiamo farci anche un’altra domanda: se, anziché il simbolino, usassimo parole tipo «Oggi ho un umore non eccezionale», sarebbe meglio? L’emoji è, in fin dei conti, un modo per sdrammatizzare, per alleggerire la pesantezza della parola e al tempo stesso per esprimersi in modo immediato.
Le emoji sono state inventate dai giapponesi, popolo assai serio ma dotato anche di lati molto infantili. Per esempio, sono timidissimi. Dire «No» per un giapponese è praticamente impossibile. Così nel 1999 al signor Shigetaka Kurita, che lavorava per l’azienda di telefonia mobile nipponica DoCoMo, venne in mente di creare questi simbolini per superare le barriere di comunicazione e di educazione che paralizzavano i suoi connazionali.
Non lo fece per scherzo, ma nemmeno avrebbe mai immaginato che i suoi simbolini sarebbero stati usati dal 92% delle persone che parlano tra loro per via digitale, che nel 2015 sarebbero stati la parola dell’anno secondo l’illustre Oxford Dictionary. E che addirittura il prestigioso Museum of Modern Art di New York avrebbe esposto il set delle prime 176 emoji create da Kurita nella propria collezione permanente, accanto alle opere di Vincent Van Gogh, Picasso e Jackson Pollock. Si potrebbe dire che la cosa sia sfuggita di mano al signor Shigetaka Kurita.
Lui, però, non dovrebbe meravigliarsi, perché ha avuto un’idea geniale (anche se i puristi del linguaggio potrebbero guardarlo con disprezzo). Le emoji, oggi arrivate a quota 2.000, sono immagini che espimono idee, sentimenti e personalità. E non è poco: la mancanza di carattere produce un sacco di gente che parla tanto senza dire nulla. Un’emoji, invece, sta zitta e dice tutto.
Se poi guardiamo alla storia dell’umanità, basta pensare ai geroglifici egiziani o alla scrittura cinese per rendersi conto che comunicare attraverso disegni non è un’idea da buttare via: tante civiltà l’hanno fatto e lo fanno ancora oggi. Certo, il pensiero di un grande romanzo tipo Guerra e pace di Lev Tolstoj scritto solo con emoji spaventa un po’.
Pensiamo però al cinema. Il film Lo scafandro e la farfalla racconta una storia vera: il protagonista, dopo un ictus, resta completamente paralizzato e può muovere solo una palpebra. Nonostante ciò, riesce a scrivere un intero libro con strizzatine di occhio fatte a una persona che ha il compito di trascrivere la sua storia.
Il fatto che le 176 emoji del signor Kurita siano finite sulle pareti di un museo è una cosa che deve farci riflettere. Non in modo negativo, ma positivo. Compito di un vero museo è mostrare la storia dell’umanità senza discriminare questo o quel linguaggio sulla base di gusti e sciocchi moralismi. È come se si buttassero al macero i fondi dorati delle pale medioevali o le tavole di Giotto perché, paragonati a Caravaggio, non raccontano le emozioni dei protagonisti allo stesso modo.
Anche i graffiti delle caverne del Paleolitico, sebbene non siano stati prodotti con le sofisticate tecniche pittoriche rinascimentali, come ogni vera arte o linguaggio raggiungono l’obiettivo che si sono prefissati: comunicare con gli altri esseri umani nel modo più chiaro ed efficace possibile.
L’apparente infantilismo e l’ipotetica mancanza di rispetto di un’emoji sono la loro forza. Come lo furono per la bottiglia di Coca Cola che, “presa in prestito” da Andy Warhol, è finita essa stessa nei musei. Si possono scrivere, dipingere, cantare cose importantissime e bellissime, ma se nessuno riesce a capirle o almeno a emozionarsi, guardandole, leggendole o ascoltandole, lasciano il tempo che trovano. La cosa fondamentale per comunicare con gli altri, da che mondo è mondo, è quello che l’emoji ci ricorda con molta semplicità: trovare dei segni che ci facciano comprendere il significato di una cosa in un istante.