Mi ricordo la prima volta che l’ho visto giocare. Era più o meno un anno e mezzo fa all’Atp Next Generation (che poi è stato il primo torneo che ha vinto) e a incuriosirmi non fu tanto la sua chioma rossa che sbucava dal cappellino, ma il cognome: Sinner, peccatore in inglese. Mi sono bastati pochi minuti di gioco per capire che in realtà Jannik di peccati non ne aveva molti. Anzi, nonostante fosse appena maggiorenne, aveva grandi virtù, tra cui un rovescio pazzesco, e quasi nessun difetto. Lo guardavo giocare di spalle e sembrava andare al rallentatore durante lo scambio. Dico al rallentatore perché, quando i tennisti hanno il senso della posizione e del campo, tutto sembra andare più lento dalla loro parte, come se non facessero sforzi. Sono quasi sempre sulla palla, non hanno bisogno di fare scatti per rincorrerla, di allungare la racchetta, di “strappare” il colpo.
Jannik agli Internazionali d’Italia
Per Jannik Sinner, 20 anni ad agosto e adesso impegnato agli Internazionali d’Italia, è così: è capace di tirare diritti e rovesci vincenti con una grazia invidiabile. E quando non ci riesce, non importa: con la stessa tranquillità e leggerezza torna a fondo campo e ricomincia, ricomincia, ricomincia. Senza mai mollare la concentrazione, senza inciampare nella sua danza armoniosa.
Che Sinner, passato in poco più di 2 anni dal numero 870 al 18 del ranking mondiale, non molli mai (tranne che la scuola: ha lasciato alla quarta superiore) non è solo una mia impressione, da appassionata di tennis e sua fan, ma anche quella del suo allenatore, Riccardo Piatti: «La prima volta che lo vidi, giocava in un torneo giovanile a Milano. Un bambino tutto rosso che veniva a rete, comandava il punto, lo perdeva e ripartiva con la stessa determinazione, come se nulla fosse. Non sapevo neanche come si chiamasse. Perse contro un ragazzo più grande. Quando un paio d’anni dopo me lo portarono alla mia academy a Bordighera, mi ricordai di lui e subito lo “adottai”».
La competizione nel sangue
Diciamo pure che la competizione nel sangue e un’attitudine sportiva innata non gli sono mai mancati. Forse grazie anche alle sue origini (è nato ai piedi della Baranci, una delle piste da sci più famose, a San Candido, in provincia di Bolzano), Jannik Sinner a 7 anni è stato campione italiano di slalom gigante. E il tennis era solo il suo terzo hobby, dopo lo sci e il calcio, fino a quando, a 13 anni, si stufa della pericolosità dello sci e si dedica a uno sport che lo faccia divertire. Sì, perché il bello di Jannik – e la sua “lezione” numero 1 – è anche questo: per lui il tennis non è solo competizione, fatica, costanza. Ma anche divertimento, libertà, fantasia.
Quando gli chiedono perché abbia smesso di sciare, ripete: «Il tennis è più vicino all’idea di gioco». Un gioco senza la paura di stancarsi. Senza mai montarsi la testa. Un gioco da bambini grandi. Dove non c’entra la corsa alla gloria e alle medaglie: qui c’è solo voglia di divertirsi. A dimostrare che Jannik si sia sempre divertito con la racchetta basta un aneddoto: per allenarsi, da ragazzino, accendeva e spegneva l’interruttore della luce in camera sua con la pallina. E che a lui piaccia giocare, adesso come allora, si vede ogni volta che scende in campo, che sorride quando fa punto, che sgranocchia carote (niente banane!) tra un game e l’altro.
«Il mio vero talento lo devo alla mia famiglia, che mi ha insegnato a dare sempre il massimo»
A crescerlo solido nella testa ma leggero e scanzonato nell’animo sono stati i genitori. Mamma e papà lavorano entrambi al Rifugio Fondovalle Talschlusshuette in Val Fiscalina, non lontano da Cortina, e, secondo gli allenatori, hanno grandi meriti: non mettergli pressione, essere una presenza costante e positiva pur vivendo a centinaia di chilometri, fidarsi di chi diceva che poteva diventare un campione. Insomma, esserci ma alla giusta distanza. Con quel sorriso, quella discrezione e quella riservatezza tipica della gente di montagna, mite ma solida. «La cosa migliore che ho non sono i colpi. Anzi, se parliamo di quelli, non credo di avere tanto talento. Il mio vero talento è un altro, e lo devo alla mia famiglia, che mi ha trasmesso il rispetto per il lavoro e insegnato a dare sempre il massimo» racconta Jannik (lezione numero 2). «Perciò ogni volta che vado in campo penso: “Io con questo ci vinco”».
Jannik Sinner, il golden boy del tennis italiano
E perciò, quando deve trovare le parole per ringraziare mamma e papà le trova, sempre. Di parole ne ha poche, anzi pochissime, quando invece deve parlare della fidanzata, Maria Braccini, 21 anni, influencer con quasi 60.000 follower. Galeotto, fra i due, un post di Maria in compagnia di un cagnolino, che Sinner ha “cuorato” facendo scattare la scintilla. «Stiamo insieme da settembre, lei sa bene che lo sport è la mia priorità. Sa di cosa ha bisogno un atleta, è una tipa molto tranquilla e non mi mette alcuna pressione» si sbottona Jannik. E per ora pare che sia proprio così, in perfetto stile Sinner: anche lei è presente, ma con discrezione.
Jannik Sinner si è sempre divertito con la racchetta: per allenarsi, da ragazzino, giocava in camera sua ad accendere e spegnere la luce con la pallina
Se da un lato il golden boy del tennis italiano, quando è in campo, sembra vada a rallentatore, dall’altro va velocissimo. Non solo nella scalata al ranking mondiale, ma anche nei colpi: è in cima alla classifica per la velocità media, 130 chilometri all’ora. «Quello che mi colpisce di lui è la capacità di generare la stessa velocità sia con il dritto sia con il rovescio» conferma Roger Federer, il mito di Jannik. A fare la differenza nel suo gioco, però, non è tanto quest’accelerazione. Ma la testa. «La parte delle emozioni mi piace perché la gestisco io» dice Jannik. E tutti a chiedersi: ma da dove viene uno così? Dove trova questa lucidità? Lui, del resto, sul suo profilo Instagram scrive: «Life is a balancing act», la vita è equilibrio (lezione numero 3). Ed è grazie a questo equilibrio, di testa ancor prima che di gesti atletici, che da fondo campo molla sventagliate una più forte dell’altra, non cerca il dialogo con l’avversario, ma righe e continue accelerazioni. Ha ragione il kazako Alexander Bublik, che Jannik ha battuto poche settimane fa nella semifinale dell’Open di Miami, ad avergli urlato: «Non hai nulla di umano, sei un robot».
Un robot sì, ma di quelli in grado di apprendere, di migliorarsi. «Prima colpiva e basta. Ora Jannik capisce i momenti della partita. Come cambiano, quali aggiustamenti fare. Lo stop forzato per la pandemia ci ha aiutato: si è allenato con i migliori, Wawrinka, Goffin, Zverev, e a lui lavorare con quelli forti serve, perché è una spugna, impara in ogni istante» racconta il suo allenatore Piatti. La lezione numero 4 di Sinner è proprio questa: quella grande e costante voglia di imparare, tipica dei bambini peraltro, un po’ come il gioco. E come ogni bambino Sinner ha anche il suo portafortuna, un leoncino comprato in aeroporto. Che sicuramente terrà stretto in tasca anche qui a Roma e nei prossimi tornei.