Nei suoi ricordi d’infanzia ce n’è uno dal sapore speciale: la fetta di pane fatto in casa con sopra strutto e zucchero che sua nonna le preparava quando aveva fame. All’epoca Lidia Bastianich era una bambina di 5 anni e viveva in Istria con la madre Ermina, insegnante, e il padre Vittorio, titolare di una piccola ditta di autotrasporti. Oggi di anni ne ha 74 ed è la donna che ha fatto innamorare l’America del cibo italiano, dando vita a un impero gastronomico.
Ma per lei cucina vuol dire sempre famiglia. «Mi riporta ai profumi delle pietanze casalinghe di mia nonna: la polenta con le verze, gli gnocchi in guazzetto. Ancora adesso quando preparo questi piatti mi sembra di tornare bambina. La cucina è un modo per dimostrare l’amore per la mia famiglia e la mia terra. Anche se da ragazzina non avevo mai veramente pensato di dedicarmici» racconta in videochiamata dalla sua casa di New York, mentre mi mostra lo studio dove sta scrivendo il suo nuovo libro di ricette, il 16esimo.
Poi l’Istria fu annessa alla Jugoslavia e lei fu costretta ad abbandonare la sua casa.
«Fuggii con i miei genitori e mio fratello a Trieste e per un paio d’anni restammo nel campo per i profughi italiani di San Sabba. Mia madre e mio padre cercavano di arrangiarsi con qualche lavoretto, avevano paura di essere rimandati indietro. Dormivamo in letti a castello e ci mettevamo in fila per il cibo, ho sofferto la fame. Eppure sento che quell’esperienza ha fatto di me la donna che sono, mi ha insegnato che dovevo rimboccarmi le maniche per costruire il mio futuro».
Un futuro costruito a New York, dove è arrivata a 11 anni. Che ricordi ha di quel periodo?
«Grandi emozioni. Io e mio fratello, che aveva 14 anni, ci innamorammo del rock and roll di Elvis Presley mentre le donne della comunità italiana venivano a dare una mano alla mia famiglia portando sporte piene di cibo. Volevamo diventare americani, ma mangiavamo italiano… Oggi penso che il mio successo dipenda proprio dal fatto di aver saputo conciliare le due culture».
Si è mai sentita un’esule in terra straniera?
«Al contrario, sentivo che l’America ci accettava e che io potevo essere utile alla società. Adesso che i tempi sono tanto cambiati, e gli emigranti vengono rifiutati dai governi, penso che il mio fosse un mondo migliore».
A 24 anni ha aperto il primo ristorante.
«Il Buonavia, 9 tavolini, nel Queens. Nel frattempo mi ero sposata ed era nato Joe. Mio marito Felice, che lavorava nella ristorazione, voleva un posto tutto suo. Io non ero pronta a entrare in cucina, così prendemmo un cuoco italo-americano: per 10 anni sono stata la sua assistente e inserivo pian piano nel menu i piatti della mia tradizione, dalla jota al gulash. Aprimmo altri locali (tra cui il celebre Felidia a Manhattan, ndr) e diventai chef. Ogni anno tornavo in Italia a provare nuovi ristoranti, una passione che hanno ereditato anche i figli e i nipoti».
Quali sono stati i momenti più duri?
«Ogni volta che mi separavo dai miei bambini per andare a lavorare. Quando nacque Tanya, la secondogenita, ero disperata: il ristorante era aperto da un anno, avevamo dei debiti e mi tormentava l’idea di lasciarla a casa. Decisi di chiedere aiuto e per fortuna trovai un bravo pediatra che mi disse: “Lidia, i bambini hanno bisogno che tu sia felice, spiega loro qual è la tua vita, e che loro ne fanno parte”. Così cominciai a portarli con me, a coinvolgerli, li ho fatti crescere nel ristorante. Dico sempre loro che sono la parte più importante del mio successo, perché hanno diviso la madre con il suo sogno di costruire l’azienda di famiglia. E non mi hanno mai rimproverata di averli trascurati».
Poi, però, ha divorziato ed è rimasta sola a gestire gli affari.
«I 28 anni passati con mio marito sono stati belli. Poi i figli sono cresciuti e si sono sposati, lui non voleva più fare il ristoratore, mentre io avevo appena cominciato a pubblicare i libri e a fare tv. Forse si sentiva messo da parte, ma ho capito che non mi avrebbe mai lasciata libera di crescere. Abbiamo diviso equamente la parte economica e, anche se ho sofferto, non gli ho mai serbato rancore. Siamo in buoni rapporti».
Mi colpisce il fatto che l’azienda che avevate creato sia rimasta a nome Bastianich, mentre il suo cognome da nubile è Matticchio.
«L’ho fatto per i figli. Era il business di famiglia, del quale loro erano sempre stati partecipi, dargli il mio nome non era poi così importante».
Com’è lavorare con i suoi figli? Con Joe fa tv anche qui in Italia.
«Essere madre e partner in affari non è semplice, sono cose che non vanno mescolate. In azienda ho sempre cercato di essere un mentore per i miei figli, formandoli ma lasciando spazio alle loro idee. Oggi Joe si occupa praticamente di tutto insieme alla sorella Tanya. Ma in tv a volte non riesco ad evitare di fargli da “mamma”, e non è che lui lo sopporti molto!».