L’ultimo in ordine di tempo è stato Topshop: per decenni ha rappresentato lo stile delle ragazze cool del Regno Unito, però nel 2018 ha registrato perdite per 113 milioni di sterline. Non è l’unico brand di abbigliamento low-cost che attraversa oggi un periodo difficile. Ci siamo forse stancate dei jeans a 20 euro e delle magliette a 5? Sì e no. Aziende come Zara e H&M vantano ancora fatturati enormi, ma che esista una tendenza inversa nel mercato è un dato di fatto.
Secondo il report di Pambianco, centro di strategia d’impresa specializzato nel settore, nel 2018 il fast fashion ha continuato la retromarcia iniziata l’anno precedente. OVS ha perso l’80% del suo valore in Borsa, H&M e Zara sono scesi del 20%. Dietro a questo momento difficile ci sono ragioni economiche, come la crisi del commercio al dettaglio, ma anche alcuni cambiamenti radicali nelle nostre abitudini di consumo.
La tendenza “Marie Kondo”
Fino a ieri la moda low-cost rappresentava l’occasione di togliersi qualche sfizio, come un paio di sandali o un vestito “ispirati” (diciamo anche copiati) a quelli delle grandi firme. Ma negli ultimi anni abbiamo iniziato a chiederci come fosse possibile produrre abiti e rivenderli a prezzi così stracciati. Le notizie sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche, gli studi sulla dannosità dei tessuti utilizzati e sull’impatto ambientale dell’industria tessile, una delle più inquinanti, hanno certamente contribuito ad abbandonare l’approccio “leggero” nei confronti dell’accumulo.
E poi ha preso piede la tendenza “decluttering” (vedi l’ormai celeberrimo metodo di Marie Kondo), che ha portato molte persone a comprare meno e meglio, oltre che premiare i marchi che garantiscono la trasparenza della filiera produttiva.
Il fattore Amazon
La flessione ha anche un altro motivo: compriamo sempre più online. La comodità e la velocità di un clic (“effetto Amazon”, come lo chiamano gli addetti ai lavori) hanno sostituito l’esperienza di andare in un negozio fisico. E infatti ci sono marchi low cost che vendono solo sul web e vanno benissimo, come Boohoo e Fashion Nova. Quest’ultimo, con quasi 15 milioni di follower su Instagram, è stato il brand di moda più cercato su Google nel 2018 e ha ricavi favolosi. Il suo segreto? Rifare alla velocità della luce i vestiti indossati dalle celebrity e usare, al posto delle tradizionali campagne pubblicitarie, le super influencer come la modella Kylie Jenner e la rapper Cardi B.
Le contromisure dei giganti
I grandi brand non restano a guardare. Ridimensionano le aperture di nuovi negozi, chiudono quelli meno redditizi e diversificano il business. H&M ha già lanciato marchi paralleli come Cos e & Other Stories, che hanno prezzi più alti e materiali mediamente migliori. Ma la novità del brand è la catena Arket: nata nell’agosto del 2017, ha negozi in Regno Unito, Svezia, Danimarca, Germania, Belgio e Olanda, più un e-commerce in 18 Paesi europei (Italia compresa). Cos’ha di particolare? Il modo in cui sono concepiti i negozi.
Non più affollati e pieni di vestiti in disordine, come sono spesso gli store di fast fashion, ma arredati in stile “new nordic”, con bistrot dove assaggiare specialità del Nord Europa e un angolo dedicato alla casa. Luoghi dove i clienti possono rilassarsi, prendere un caffè, socializzare: tutte esperienze “reali”. La battaglia sul web intanto è aperta, il futuro sta nell’intercettare i cambiamenti di gusto del pubblico. Chissà, forse è per questo che H&M ha assunto come consulente Christopher Wylie, l’hacker di Cambridge Analytica, società accusata di avere usato scorrettamente dati prelevati da Facebook. A dimostrazione che la “guerra dei vestiti” è un affare serissimo.
I numeri
– 62% È il crollo dei profitti di H&M nel trimestre fra dicembre 2017 e febbraio 2018. + 600% Di tanto sarebbe cresciuto Fashion Nova, brand di moda low cost venduto solo online, secondo l’amministratore delegato Richard Saghian.