La moda che cambia
La moda non è solo un fenomeno di costume, è lo specchio dei tempi che corriamo. E così che, mentre da una parte la società e il mondo intero sembrano essere sempre più connessi e globalizzati, dall'altro si ergono muri, si chiudono confini e si cerca di escludere tutto ciò che è diverso e lontano. Queste stesse dicotomie sono state avvertite, dai più attenti, anche sulle passerelle della settimana della moda: da Parigi a New York passando per Milano, c'è aria di cambiamento e di desiderio di apertura.
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La moda pro-hijab
Fino a qualche stagione fa la moda per i paesi arabi, era realizzata in limited edition pensate appositamente per quel mercato, come è successo con la collezione Abaya firmata da Dolce&Gabbana, o se qualche velo aveva fatto capolino alle sfilate, era quasi sempre in occasioni create ad hoc. Il vero cambiamento è stato messo in atto nelle ultime stagioni. Abbiamo visto durante la Milano Fashion Week, in passerella da Alberta Ferretti la prima modella musulmana con il velo: Halima Aden. L'ultima novità è il velo proposto da Nike: si chiama Nike Pro Hijab pensato appositamente per le atlete di origini musulmane. Fino alla prima cover di Vogue Arabia, con Gigi Hadid coperta da un velo prezioso. Ma procediamo con ordine e analizziamo step by step l'evoluzione della moda pro-hijab.
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Da DKNY a Dolce&Gabbana, passando per H&M: l'apertura al Hijab
Era il luglio del 2014 quando DKNY ha lanciato la linea Donna Karan New York Ramadan, collezione in cui gli abiti erano studiati appositamente per rispettare tutti i precetti islamici. Un'idea nata (anche) per il considerevole boom economico del mercato islamico e che ha visto all'ideazione del progetto l’editor kuwaitiana Yalda Golsharifi e la designer di Dubai Tamara. Nello stesso periodo anche Oscar de La Renta, Tommy Hilfinger e Moda Operandi con il supporto di Monique Luillier avevano sondato il terreno con collezioni mirate. La collezione di Dolce&Gabbana Abaya ha avuto maggiore risonanza, perlomeno in Italia, che prevedeva, oltre il velo per il capo anche il vestito (abaya) che copre tutto il corpo tranne piedi e mani, ovviamente ornato di tutto punto come solo i due stilisti sanno fare e corredato di accessori e borsette deluxe. Anche i brand lowcost come H&M hanno propongono negli store parigini alcuni capi per donne musulmane e in una campagna ha scelto una modella con hijab di 17 anni, Mariah Idrissi, la prima con il velo a posare per H&M. Anche il burkini, il costume da bagno che copre completamente il corpo, è stato proposto dalla catena britannica Mark&Spencer.
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Il dubbio: scelte di mercato o di reale apertura?
Queste collezioni, sono solo il frutto di strategie di profilazione millimetrica dei consumatori? Inutile dire che i consumi sono monitorati sotto la lente d'ingrandimento e nulla si fa per caso, in alcuni paesi arabi si muovono enormi cifre per tutto ciò che concerne abbigliamento e lifestyle e la moda è sicuramente tra le prime voci di consumo per spese extra. Il segnale di cambiamento che abbiamo notato nelle ultime collezioni a tema arabo proposte dagli stilisti, sta nel fatto che queste "intrusioni" di capi di abbigliamento non occidentali, non sono più viste solo come una cosa stagionale, o da proporre con determinate ricorrenze. Le donne musulmane vivono e fanno shopping anche a Milano, Roma, New York, Madrid o Parigi, per citare alcune città che per dimensioni tengono ad essere più includenti. Il terreno diventa impervio quando la moda cerca di "raccontare" culture diverse e finisce per cadere banalmente in errori di "forma", per il resto gli stilisti da sempre s'ispirano e sono affascinati dall'esotico, molti dei capi che abbiamo nel nostro guardaroba e che sono diventati un cult provengono da culture lontane e diverse dalla nostra. Ancora più scivoloso è il discorso dell'appropriazione culturale di simboli, oggetti, fetticci: e questo va dalle treccine rasta ai decori delle tribù Inuit.
Vedere una modella con hijab sulla passerella di Alberta Ferretti e di Max Mara, ad esempio, ha portato a discussioni contrastanti, soprattutto sui social che fungono ormai da cassa di risonanza sugli argomenti "caldi" che attraversano il Paese. Alcuni criticano il fatto che si renda "desiderabile" un indumento simbolo, soprattutto per noi occidentali, di sottomissione, dall'altra parte c'è chi apprezza il rispetto per usi di culture diverse dalla nostra.
Nike apre alle atlete musulmane
Sono sempre più le atlete musulmane che si distinguono in sport anche considerati diffusamente maschili, cogliendo il segnale di un forte cambiamento in atto "che ha visto più e più donne aprirsi allo sport". Anche coloro che meno sono avvezzi a seguire lo sport avranno notato ad esempio alle Olimpiadi la presenza di atlete con il velo. Sarah Attar ad esempio, a Londra negli 800 metri, ma anche la campionessa di taekwondo turca Kübra Dağlı, oppure, la schermitrice statunitense Ibtihaj Muhammad, che ha vinto il bronzo alle ultime Olimpiadi.
Evoluzione del velo islamico: 100 anni di storia
Non è facile semplificare cento anni di storia di velo islamico. Non è facile etichettarlo, ritenerlo giusto o sbagliato, soprattutto se chi giudica non conosce da vicino la storia di chi lo indossa. Con l'acceso clima di islamofobia degli ultimi anni ci siamo spesso trincerati dietro giudizi netti, ma la storia del velo che copre la testa affonda le sue radici non solo in teorie religiose, ma anche di ceto, appartenenza, riconoscimento. Lo spiegano le Muslim Girl – un collettivo di ragazze che ha realizzato il video 100 anni di hijab proprio per raccontare l'importanza di questo indumento: "Vogliamo dimostrare che l’hijab si è evoluto non solo nella moda ma anche nella politica. Storicamente ha simboleggiato il rifiuto della donna musulmana all’oggettivazione e alla sessualizzazione, il contrasto allo sguardo maschile. Oggi rappresenta la nostra sfida all’islamofobia. Il velo è destinato a essere una scelta molto personale e spirituale".