C’è chi sfreccia sulla pista e chi volteggia in aria. Chi scivola sul ghiaccio a 140 all’ora e chi spara con precisione millimetrica. Ecco le campionesse azzurre da tenere d’occhio alle Olimpiadi invernali di Pechino. Pronte a fare il tifo?
1 di 6
– SOFIA GOGGIA Provaci ancora, Sofia
Sofia Goggia, 29 anni, è l’icona dello sci femminile italiano: ha vinto il bronzo nello slalom ai Mondiali 2017, l’argento nel SuperG in quelli del 2019, la Coppa del Mondo di discesa libera nel 2018 e nel 2021 e, sempre in discesa, l’oro ai Giochi in Corea del Sud nel 2018. Finora.
2 di 6
– ARIANNA FONTANA Due pattini, tante medaglie e un amore
In principio cadeva sempre dai pattini, e il suo primo maestro fece no con la testa. «Disse ai miei che non ero portata». Arianna Fontanaride, ricordando ora quanto quell’istruttore ci avesse visto poco lungo. Alla vigilia della sua quinta Olimpiade, a 31 anni, la campionessa azzurra di short track non esclude di prolungare il sogno fino alla sesta, Milano-Cortina 2026. «Potrei chiudere come ho cominciato, con i Giochi in casa. Sarebbe troppo bello, ma è ancora presto per pensarci». Aveva iniziato per gioco, per il gusto di fare quello che faceva Alessandro, suo fratello. «Ho capito subito che la mia passione era la velocità, mica le piroette».
A Torino 2006 era poco più che una bambina, e quasi non si rese conto di quello che le succedeva. Il bronzo nella staffetta fece di lei la più giovane atleta italiana a vincere una medaglia alle Olimpiadi invernali. «A 15 anni ero già Cavaliere!». In quei Giochi conobbe Anthony Lobello, che gareggiava nello short track per gli Usa: si sono innamorati e poi sono diventati marito e moglie, tra i Giochi di Vancouver e quelli di Sochi. Intanto Arianna non ha mai smesso di collezionare primati: il bronzo individuale nel 2010 fu il primo di un’atleta azzurra nello short track, a Sochi i bronzi furono 2, più un argento. Mancava l’oro: è arrivato 4 anni fa, in Corea, quando Arianna portava la nostra bandiera alla cerimonia inaugurale.
3 di 6
– MICHELA MAIOLI È l’equilibrio che conta. sulla tavola e nella vita
Dice Michela Moioli che alla sua terza Olimpiade non le interessa difendere il titolo conquistato nel 2018: «Quello nessuno me lo toglie, voglio portarmi a casa qualcosa di nuovo». 26 anni, «sono una ragazza con un bel fidanzato che vuole fare una vita normale». Poi però c’è quella storia dello snowboard, e di tutta la gente che ancora glielo ricorda: «Quanto mi hai fatto piangere». Anche lei aveva pianto, come sempre ai Giochi. La prima volta, nel 2014, era quasi una bambina: pianse perché era caduta, si era rotta il menisco e i legamenti crociati. Quattro anni dopo, in Corea, erano state lacrime di gioia: «Nessuno ti può preparare a una cosa così grande».
Dopo l’oro Michela, nata ad Alzano Lombardo, si rifugiò con suo padre nei boschi, dove va a funghi, coltiva fragole e lamponi e un’antica varietà di mele. Aver imparato a gestire l’ansia delle gare è il suo segreto quando deve dare gli esami all’università, Scienze Motorie. Lo snowboard non è stato la prima scelta: aveva già provato calcio, pallavolo, getto del peso, lancio del disco, nuoto, bicicletta, sci. Però si annoiava. Poi ha scoperto la tavola: d’estate fa surf sulle onde, d’inverno volteggia sulla neve. L’importante è stare in equilibrio. Michela non lo ha perso neanche quando ha saputo di dover portare la bandiera al posto della sua amica Sofia Goggia: «Lo farò pensando a lei».
4 di 6
– NINA ZÖGGELER In slittino seguendo le orme di papà
Il cognome Zöggeler torna a essere protagonista nello slittino. Questa volta però non si tratta di Armin, allenatore della squadra italiana e leggenda sportiva con 10 vittorie in Coppa del Mondo e 6 podi alle Olimpiadi, ma della figlia Nina, 21 anni il 5 febbraio. Altoatesina, di poche parole ma di grande cuore, nel 2017, a soli 16 anni, ha fatto un esordio precocissimo in Coppa del Mondo grazie a un nono posto nel singolo alla Nations Cup di Innsbruck. Con suo papà condivide due amori: il silenzio e la montagna. E un rapporto unico, simbiotico con la pista: nelle traiettorie insegue la precisione assoluta e per guidare usa, sì, la forza fisica, ma soprattutto quella mentale. Che l’aiuta a mantenere la concentrazione e a dare il meglio di sé. La paura? Non sa neanche cosa sia.
D’altronde, se decidi di praticare questo sport, non può che essere così: si scivola, con il corpo rivolto al cielo, sdraiati su una slitta che non ha freni. Sono i piedi, posti a uncino, a fare da “timoni” durante la gara, che di solito si corre a circa 140 chilometri all’ora su una pista fatta di curve a gomito e canaloni di ghiaccio. Nina, in compenso, conosce bene un’altra emozione: il divertimento. E per capirlo basta dare un’occhiata al suo sguardo quando si allaccia il casco, prima di scendere in pista. E ascoltare le parole, le uniche, che ha detto quando ha visto la pista di Pechino: «Sarà divertente».
5 di 6
– DOROTHEA WIERER E adesso sono tutti pazzi per il biathlon
Gli occhi di Dorothea Wierer ti ipnotizzano: guardandola non è difficile capire come sia diventata la star di uno sport antico che nel nostro Paese non aveva seguito. Il biathlon era quello dei cacciatori che uscivano con gli sci ai piedi e il fucile in braccio nei Paesi nordici. Poi è arrivata “Doro” e il biathlon adesso lo conoscono tutti anche da noi. Lei sorride, spara, vince. Si sposta in elicottero per non togliere tempo alla sua vita, ha sponsor sempre più importanti, posa per i fotografi con i tacchi da diva e l’abito da sera ma sogna di rilassarsi immersa nella sauna insieme a suo marito, Stefano. «Una cosa però non è mai cambiata: quando gareggio sono sempre agitata come la prima volta». Se non fosse lei a confessarlo, sarebbe impossibile indovinarlo da quegli occhi di ghiaccio. Doro ad aprile compirà 32 anni, e questa è la sua ultima Olimpiade da atleta. «Nel 2026 a Milano-Cortina sicuramente non gareggerò più».
È dal 2010 che il biathlon è il centro del suo mondo, in un anno fa circa 700 ore di allenamento nello sci di fondo fondo e 300 nel tiro. Dopo le 2 medaglie di bronzo in staffetta, non è difficile capire quale sia il traguardo a Pechino. «Vincere una medaglia individuale sarebbe il punto più alto della mia carriera». Le 2 Coppe del mondo le ha messe via senza farci troppo caso. «Una l’ho lasciata ad Anterselva dai miei, l’altra è da qualche parte dentro una scatola».
6 di 6
– Sofia Goggia
Sofia Goggia a Pechino
Sofia Goggia sì che ci prova. Dopo l’ultimo, terribile infortunio al ginocchio, sta dando tutto per scendere in pista ai Giochi invernali. Scommettiamo che ce la farà. Perché l’ha già fatto infinite volte: cadere, rialzarsi, vincere. Andando sempre al massimo. Come scriveva in un tema alle elementari…
Sofia Goggia è come ci piacerebbe essere: una che si butta nella vita, senza paura di cadere, di rompersi, di soffrire. Non avrebbe senso chiederle di andare più piano, di essere prudente, di tenere la giusta distanza. Anche se con il capitombolo in SuperG a Cortina ha messo a rischio i Giochi invernali, a Pechino dal 4 al 20 febbraio, lasciando il ruolo di portabandiera azzurra all’amica Michela Moioli, bergamasca come lei. E costringendosi a una corsa contro il tempo per riuscire a disputare la discesa libera del 15 febbraio.
Ci piace proprio per questo. Perché non fa calcoli, non si risparmia, dà tutta se stessa. Quando è andata a sbattere contro le reti ad Altenmarkt, a metà gennaio, suo padre le ha scritto su WhatsApp: «Se vuoi che muoia, dimmelo». Sofia ha raccontato che 2 giorni dopo, il lunedì, non riusciva neppure a camminare. Il sabato ha vinto la discesa di Coppa del Mondo a Cortina, sulla sua pista del cuore. La domenica è partita per il SuperG: una spigolata esagerata, il volo a 92 chilometri orari, una spaccata innaturale. Si è rialzata ma faceva no con la testa. Aveva già capito: trauma distorsivo del ginocchio sinistro, lesione parziale del legamento crociato già operato nel 2013 e piccola frattura del perone. Apriti cielo: sui social si sono moltiplicati quelli convinti che avrebbe dovuto scendere col freno a mano tirato. Quelli che evidentemente non la conoscono.
Sofia era alle elementari quando scrisse in un tema: «Da grande voglio vincere l’oro all’Olimpiade in discesa libera». Ci è riuscita 4 anni fa, in Corea. Prima e dopo è stato un susseguirsi di inferni e paradisi, e lei li ha attraversati uscendone ogni volta più forte. «Abbiamo dentro una forza inimmaginabile, dobbiamo solo trovare il modo per usarla». Lei per riuscirci lavora sulla sua mente, da 2 anni anche con l’aiuto di una psichiatra: «Arrivi a un punto in cui puoi migliorare soltanto se riesci a crescere interiormente. Cerco di assomigliare a come mi immaginavo da bambina. Vorrei mantenere la stessa capacità di sognare che avevo quando scrissi quel tema da piccola».
Chiederle di andarci piano non ha senso. Sofia non è capace di alzare il piede dall’acceleratore. E non si è ancora stancata di ricominciare da capo. La prima volta non aveva ancora 15 anni: rottura del legamento crociato e del menisco esterno del ginocchio destro. Prima dei Giochi del 2014, a Sochi, toccò al sinistro: crociato e due menischi. Da allora un’alternanza impressionante di fratture, interventi, recuperi. Feroce lo stop di un anno fa, quando fu costretta a saltare i Mondiali a Cortina per essersi fratturata il piatto tibiale destro scendendo su una pista turistica a Garmisch, in Austria. «Gli infortuni ti ricordano che la natura ha i suoi tempi, e tu non puoi fare altro che rispettarli». Anche quando vorresti sederti in un angolo e piangere, perché le Olimpiadi sono troppo vicine.
Quando il tuo mestiere è andare più veloce delle altre, la lentezza diventa un premio. «Non vedo l’ora di potermene concedere un po’, il mio lusso è mezza giornata soltanto per me ». Con gli amici di sempre, e con i suoi animali. Belle, la sua cagnolina. Ambrosi, la vitellina che ha avuto in premio l’anno scorso per aver vinto in Val d’Isère. O le Selvagge, le 2.500 galline che alleva in un bosco sotto Selvino: ascoltano musica classica tutto il giorno e fanno uova biologiche per il ristorante di Cracco a Portofino. «Mi piace anche andare lì a dare una mano quando posso. Cerco di ricordarmi che cosa sarei stata se non fossi diventata chi sono».
Essere Sofia Goggia non è sempre una strada in discesa: «Non mi sono ancora stancata di essere la Goggia. La vita di un atleta professionista è pesante, è uno stress anche avere addosso gli occhi di molte persone, ma a me la pressione delle gare piace, sono sempre stata affascinata dalla sfida». Eccone un’altra, allora: provare a presentarsi alle Olimpiadi 20 giorni dopo un disastro così. Piscina, crioterapia, laser, palestra, tekar, neanche un minuto da perdere per qualcosa che non sia rimettersi insieme, piegare il dolore, andare oltre: «Mi basta essere a posto fisicamente perché tutto funzioni: ho una testa allucinante, in questo credo di essere la più forte».
Sofia Goggia è come vorremmo essere: una che sa accettare quello che le succede, prenderlo come un’occasione per capire qualcosa in più di sé, senza perdere neanche un minuto a sentirsi sfortunata. Le cicatrici si devono vedere, ci ricordano che prima sono state ferite. Le ossa e i tendini non saranno mai quelli di prima, ma possono essere anche meglio. Sofia è istinto e musica. «Mi sento una chitarra elettrica, ma suono il pianoforte perché mi rilassa. E mi aiuta a livello cognitivo: coordinare due mani che toccano tasti diversi a differenti velocità allena la mia capacità mnemonica». Ha un altro passo, un’altra velocità. Avete presente quando è al cancelletto di partenza e mima con le mani la discesa che sta per fare? È la sua sinfonia. Tutti tifiamo per vedergliela suonare ancora, ai Giochi.